La fiaba del cavallo incantato-Parte IV

Torniamo all’indiano: egli manovrò il cavallo incantato in modo che, nello stesso giorno, arrivò di buon’ora in un bosco vicino alla capitale del regno di Kashmir. Avendo bisogno di mangiare e ritenendo che la principessa del Bengala dovesse avere lo stesso bisogno, scese a terra in quel bosco, e lasciò la principessa sull’erba, vicino a un ruscello di acqua molto fresca e limpida. Durante l’assenza dell’Indiano, la principessa del Bengala, che si vedeva in potere di un indegno rapitore, del quale temeva la violenza, aveva pensato di fuggire e di cercare un asilo; ma poiché, al suo arrivo al palazzo di campagna aveva mangiato molto leggermente, si sentì tanto debole, quando volle mettere in atto il suo piano, che fu costretta ad abbandonarlo e a restare senz’altra risorsa tranne il suo coraggio, con la ferma risoluzione di affrontare la morte piuttosto che venire meno alla fedeltà al principe di Persia. Perciò non aspettò che l’indiano l’invitasse una seconda volta a mangiare: mangiò e si rimise abbastanza in forze da rispondere coraggiosamente agli insolenti discorsi che quello cominciò a farle dopo aver mangiato. Dopo parecchie minacce, vedendo che l’indiano si preparava a violentarla, si alzò per resistergli, levando alte grida. Queste grida attirarono in un momento un gruppo di cavalieri che circondarono lei e l’indiano. Si trattava del sultano del regno di Kashmir che, tornando dalla caccia con il suo seguito, per fortuna della principessa del Bengala passava da quelle parti ed era accorso al rumore che aveva sentito. Si rivolse all’indiano e gli chiese chi fosse e che cosa pretendesse dalla dama lì presente. L’indiano rispose con impudenza che era sua moglie e che nessuno aveva il diritto di conoscere il soggetto del loro bisticcio. La principessa, che non conosceva né il grado né la dignità di colui che si presentava così a proposito per liberarla, smentì l’indiano. “Signore,” disse, “chiunque voi siate, che il Cielo manda in mio soccorso, abbiate compassione di una principessa e non prestate fede a un impostore: Dio mi guardi dall’essere moglie di un Indiano così vile e così spregevole! È un abominevole mago, che oggi mi ha rapito al principe di Persia, al quale ero destinata in sposa, e che mi ha portato qui su questo cavallo incantato.” La principessa del Bengala non ebbe bisogno di dire altro per convincere il sultano di Kashmir della verità di ciò che diceva. La sua bellezza, la sua aria aristocratica e le sue lacrime parlavano per lei. Lei volle continuare; ma, invece di ascoltarla, il sultano di Kashmir, giustamente indignato dall’insolenza dell’indiano, lo fece subito circondare e ordinò di tagliargli la testa. L’ordine fu eseguito tanto più facilmente in quanto l’indiano, che aveva compiuto il rapimento appena uscito di prigione, non aveva nessun’arma per difendersi.

La principessa del Bengala, liberata dalla persecuzione dell’indiano, cadde in un’altra che non fu meno dolorosa per lei. Il sultano, dopo averle fatto dare un cavallo, la portò al suo palazzo, le assegnò l’appartamento più splendido dopo il suo, e le diede un gran numero di schiave che le stessero accanto e la servissero, e degli eunuchi per difenderla. La accompagnò lui stesso in quell’appartamento dove, senza darle il tempo di ringraziarlo, così come lei aveva pensato, per il grande servigio che le aveva reso, le disse: “Principessa, sono certo che avete bisogno di riposo; vi lascio libera di coricarvi. Domani sarete in condizioni migliori per raccontarmi le circostanze della strana avventura che vi è capitata.” Dette queste parole si ritirò. La principessa del Bengala era in preda a una gioia inesprimibile vedendosi, in così poco tempo, liberata dalla persecuzione di un uomo che non poteva considerare se non con orrore; e si lusingò che il sultano di Kashmir avrebbe voluto portare al colmo la sua generosità rimandandola dal principe di Persia quando lei gli avesse detto per quale circostanza era destinata a lui e lo avesse supplicato di concederle questa grazia: ma era ben lontana dal vedere esaudita la speranza che aveva concepito. Infatti il re di Kashmir aveva stabilito di sposarla il giorno dopo e aveva fatto annunciare i festeggiamenti fin dall’alba, al suono dei timpani, dei tamburi, delle trombe e di altri strumenti adatti a ispirare la gioia, che risuonavano non solo nel palazzo ma anche in tutta la città. La principessa del Bengala fu svegliata da questi fragorosi concerti e ne attribuì la causa a tutt’altro motivo di quello per il quale erano stati ordinati. Ma quando il sultano di Kashmir, che aveva dato ordine di avvertire appena lei fosse stata in condizione di riceverlo, si fu recato da lei e quando, dopo essersi informato della sua salute, le ebbe comunicato che le fanfare che sentiva suonavano per rendere più solenni le loro nozze, e nello stesso tempo l’ebbe pregata di prendervi parte, lei ne fu così costernata da cadere svenuta. Le ancelle della principessa, che erano presenti, accorsero in suo aiuto, e il sultano stesso si adoperò per farla rinvenire; ma lei rimase a lungo in quello stato prima di riprendere i sensi. Infine si riebbe e allora, piuttosto che venir meno alla fedeltà che aveva promesso al principe Firuz Shah, acconsentendo alle nozze che il sultano di Kashmir aveva stabilito senza consultarla, prese la decisione di fingere che, a causa dello svenimento, le avesse dato di volta il cervello. Subito cominciò a dire delle stravaganze in presenza del sultano; si alzò anche come per gettarsi su di lui: e il sultano fu molto stupito e addolorato da questo spiacevole contrattempo. Vedendo che lei non accennava a rinsavire, la lasciò con le sue ancelle raccomandando loro di non abbandonarla e di aver molto cura di lei. Durante la giornata si preoccupò di mandare più volte a chiedere sue notizie e ogni volta gli riferirono o che era nello stesso stato o che il male aumentava invece di diminuire. Verso sera il male sembrò molto peggiorato rispetto alla giornata; e quindi il sultano di Kashmir non fu, quella notte, felice come si era ripromesso.

La principessa del Bengala continuò non solo il giorno dopo i suoi discorsi stravaganti e a dare altri segni di una grave alienazione mentale: fece la stessa cosa anche i giorni seguenti, finché il sultano di Kashmir fu costretto a riunire i medici della sua corte, a parlare loro della malattia e a chiedere se conoscessero qualche rimedio per guarirla. I medici, dopo essersi consultati tra loro, risposero di comune accordo che esistevano parecchie specie e parecchi stadi di questa malattia, che a volte poteva essere guarita, e altre volte era incurabile; e che essi non potevano giudicare di quale natura fosse quella della principessa del Bengala se non l’avessero prima vista. Il sultano ordinò agli eunuchi di introdurli nella camera della principessa, gli uni dopo gli altri, secondo il loro grado. La principessa aveva previsto quanto stava accadendo, e temette che, se si fosse lasciata avvicinare dai medici e se questi le avessero tastato il polso, anche il meno esperto si sarebbe accorto che era in buona salute e che la sua malattia era una finzione; via via che essi entravano, fingeva degli attacchi di collera così violenti, pronta a sfigurarli se si fossero avvicinati, che neppure uno di loro ebbe il coraggio di esporvisi. I medici che si consideravano più abili degli altri e che si vantavano di riconoscere le malattie anche a prima vista, le prescrissero delle pozioni che lei ebbe tanto meno difficoltà a prendere in quanto era sicura di potere essere ammalata finché avesse voluto e finché lo giudicasse opportuno, e che queste pozioni non potevano farle male. Quando il sultano di Kashmir vide che i medici della sua corte non avevano fatto niente per la guarigione della principessa, chiamò quelli della sua capitale, la cui scienza, abilità ed esperienza non ebbero miglior successo. Poi fece chiamare i medici delle altre città del suo regno, particolarmente i più rinomati nell’esercizio della loro professione. La principessa non fece loro una migliore accoglienza che ai primi, e tutto quello che essi le prescrissero non ebbe nessun effetto. Infine mandò dei corrieri negli Stati, nei regni e nelle corti dei principi vicini con messaggi nelle debite forme da distribuire ai medici più celebri, con la promessa di ben pagare il viaggio di quelli che si sarebbero recati nella capitale del Kashmir e di una magnifica ricompensa per colui che avrebbe guarito la malata. Parecchi di questi medici intrapresero il viaggio; ma nemmeno uno poté vantarsi di essere stato più fortunato di quelli della corte e del regno del sultano di Kashmir; nemmeno uno poté farla rinsavire; cosa che non dipendeva né da loro né dallo loro scienza, ma solo dalla volontà della principessa.

Nel frattempo il principe Firuz Shah, travestito da derviscio, aveva percorso parecchie province e le principali città di queste province, tanto più preoccupato, senza tener conto delle fatiche del viaggio, in quanto ignorava se stesse percorrendo una strada opposta a quella che avrebbe dovuto prendere per avere notizie di colei che cercava. Facendo attenzione alle notizie che circolavano in ogni posto per il quale passava, arrivò infine in una grande città delle Indie dove si parlava molto di una principessa del Bengala alla quale aveva dato di volta il cervello lo stesso giorno che il sultano di Kashmir aveva destinato alla celebrazione delle sue nozze con lei. Nel sentire il nome di principessa del Bengala, supponendo che fosse quella per la quale aveva intrapreso il suo viaggio, maggiormente perché, a quanto sapeva, alla corte del Bengala non esisteva un’altra principessa oltre la sua, e prestando fede alla voce comune che si era diffusa, si diresse verso il regno e la capitale di Kashmir. Al suo arrivo in questa capitale prese alloggio in un «khan» dove, lo stesso giorno, seppe la storia della principessa del Bengala e la triste fine dell’indiano (come si era meritato) che l’aveva portata lì sul cavallo incantato: circostanze che gli fecero capire, con assoluta certezza, che la principessa era colei che stava cercando, e infine, l’inutile spesa che il sultano aveva fatto per pagare i medici che non erano riusciti a guarirla. Il principe di Persia, informato di tutti questi particolari, il giorno dopo si fece fare un vestito da medico: e, con questo vestito e la lunga barba che si era lasciato crescere durante il viaggio, si presentò come medico, facendosi notare per le strade della città. Impaziente com’era di vedere la sua principessa, non indugiò ad andare al palazzo del sultano, dove chiese di parlare con un ufficiale. Lo indirizzarono al capo degli uscieri al quale disse che forse potevano considerarlo temerario se veniva a presentarsi come medico per cercare di guarire la principessa dopo che tanti altri prima di lui non c’erano riusciti: ma che sperava, in virtù di alcuni rimedi specifici che conosceva e che aveva sperimentato, di procurarle la guarigione che gli altri non avevano potuto darle. Il capo degli uscieri gli disse che era il benvenuto e che il sultano lo avrebbe visto con piacere; e che, se fosse riuscito a dargli la soddisfazione di vedere la principessa ristabilita come prima, poteva aspettarsi una ricompensa adeguata alla liberalità del sultano, suo signore e padrone. “Aspettatemi,” aggiunse, “torno da voi fra un momento.”

Da parecchio tempo non si era presentato nessun medico: e il sultano di Kashmir, con grande dolore, aveva perso la speranza di rivedere la principessa del Bengala nello stato di salute in cui l’aveva vista la prima volta e di poterle così dimostrare, sposandola, fino a che punto l’amava. Questo fece sì che egli ordinasse al capo degli uscieri di portargli subito il medico che gli aveva annunciato. Il principe di Persia, travestito da medico, fu presentato al sultano di Kashmir, e il sultano, senza perdere tempo in inutili discorsi, dopo avergli dichiarato che la principessa del Bengala non poteva sopportare la vista di un medico senza essere presa da eccessi nervosi che servivano solo ad aggravare il suo male, lo fece salire in un soppalco dal quale poteva vederla attraverso una persiana senza essere visto. Il principe Firuz Shah salì e vide la sua bella principessa seduta con noncuranza, intenta a cantare con le lacrime agli occhi una canzone con la quale deplorava il suo infelice destino che forse la privava per sempre dell’uomo che amava così teneramente. Il principe, commosso per il triste stato in cui vide la sua cara principessa, non ebbe bisogno di altro per capire che la sua malattia era finta e che si trovava in una costrizione tanto penosa per amor suo. Scese dallo stanzino; e, dopo aver informato il sultano di quale natura fosse la malattia della principessa e averlo assicurato che non era incurabile, gli disse che, per riuscire a guarirla, doveva parlarle in privato e da solo a solo; e, quanto agli attacchi che l’affliggevano alla vista dei medici, egli sperava che lei lo avrebbe ricevuto e ascoltato favorevolmente.

Il sultano fece aprire la porta della camera della principessa e il principe Firuz Shah entrò. Appena la principessa lo vide apparire, scambiandolo per un medico dato che ne indossava il vestito, si alzò come una furia minacciandolo e caricandolo di ingiurie. Questo non gli impedì di avvicinarsi a lei; e, quando le fu abbastanza vicino per ben intendersi, poiché voleva essere sentito solo da lei, le disse in tono basso e con aria rispettosa: “Principessa, io non sono medico. Riconoscete, ve ne supplico il principe di Persia che viene a liberarvi.” Riconoscendo insieme la voce e i lineamenti del viso del principe, nonostante la lunga barba che si era lasciato crescere, la principessa del Bengala si calmò: e subito fece apparire sul suo viso la gioia che la cosa che più si desidera e meno ci si aspetta è capace di provocare. La piacevole sorpresa che provò le tolse la parola per qualche tempo e diede modo al principe Firuz Shah di raccontarle la disperazione che aveva provato nel momento in cui aveva visto l’indiano rapirla e sottrarla al suo sguardo; la decisione che egli aveva subito preso di abbandonare ogni cosa per cercarla in qualunque posto della terra potesse essere, e di continuare a cercarla finché non l’avesse trovata e strappata dalle mani del perfido; e per quale fortuna, infine, dopo un viaggio noioso e stancante, egli avesse avuto la soddisfazione di ritrovarla nel palazzo del sultano di Kashmir. Quando ebbe finito con il minor numero di parole possibile, egli pregò la principessa di informarlo di quello che le era capitato dal momento in cui era stata rapita fino al momento in cui egli aveva la felicità di parlarle, dichiarandole che voleva conoscere tutto al fine di prendere i provvedimenti necessari per non lasciarla ancora più a lungo sotto la tirannia del sultano di Kashmir. La principessa del Bengala non doveva fare un lungo discorso al principe di Persia, poiché doveva soltanto raccontargli in che modo il sultano di Kashmir, che tornava dalla caccia, l’aveva salvata dalla violenza dell’indiano, ma come fosse stata trattata crudelmente il giorno dopo, quando il sultano le aveva comunicato la sua precipitosa decisione di sposarla quello stesso giorno, senza averle fatto la cortesia di chiederle il suo consenso; condotta violenta e tirannica, che le aveva causato uno svenimento dopo il quale lei non aveva trovato miglior partito da prendere per restare fedele al principe al quale aveva dato il suo cuore, se non quello di morire piuttosto che darsi a un sultano che non amava e non poteva amare. Il principe di Persia, al quale la principessa non aveva in effetti altro da dire, le chiese se sapeva che fine avesse fatto il cavallo incantato dopo la morte dell’indiano. “Ignoro,” rispose lei, “che ordine il sultano può aver dato a questo proposito; ma, dopo quanto gli ho detto del cavallo, immagino che non lo abbia trascurato.” Il principe Firuz Shah, non dubitando che il sultano di Kashmir avesse fatto custodire accuratamente il cavallo, comunicò alla principessa la sua intenzione di servirsene per riportarla in Persia. Dopo essersi messo d’accordo con lei sui provvedimenti da prendere per riuscirvi, affinché niente ne impedisse l’esecuzione, e dopo averle caldamente raccomandato di non farsi trovare il giorno dopo in vestaglia, come era in quel momento, per ricevere degnamente il sultano, quando egli lo avrebbe portato nel suo appartamento, senza essere tuttavia costretta a parlargli, il principe di Persia si ritirò.

Il sultano di Kashmir provò una grande gioia quando il principe di Persia lo ebbe informato di quello che aveva fatto fin dalla prima visita per portare verso la guarigione la principessa del Bengala. Il giorno dopo, lo considerò il primo medico del mondo, quando la principessa lo ebbe ricevuto in maniera tale da convincerlo che veramente la sua guarigione era a buon punto, come egli gli aveva lasciato intendere. Trovandola in questo stato, egli si accontentò di dichiararle quanto fosse felice di vederla in condizione di riacquistare ben presto la sua buona salute; e, dopo averla esortata a collaborare con un medico tanto abile, per portare a termine quello che egli aveva tanto bene iniziato, dandogli tutta la fiducia, si ritirò senza aspettare da lei nessuna risposta. Il principe di Persia, che aveva accompagnato il sultano di Kashmir, uscì con lui dalla camera della principessa; e, accompagnandolo, gli chiese se, senza venir meno al rispetto che gli era dovuto, poteva chiedergli per quale avventura una principessa del Bengala si trovasse sola nel regno di Kashmir, così lontana dal suo paese, come se lo avesse ignorato e la principessa non gli avesse detto niente; egli rivolse questa domanda per far cadere il discorso sul cavallo incantato e sapere dalle sue labbra che cosa ne avesse fatto. Il sultano di Kashmir, che non poteva immaginare per quale motivo il principe di Persia gli rivolgesse quella domanda, non ne fece un mistero: gli disse all’incirca quanto aveva saputo dalla principessa del Bengala; e, in quanto al cavallo incantato, gli disse di averlo fatto portare nel suo tesoro, come una grande rarità, sebbene ignorasse come potersene servire. “Sire,” rispose il finto medico, “le notizie che apprendo da Vostra Maestà mi forniscono il mezzo per guarire completamente la principessa. Poiché lei è stata portata su questo cavallo, e questo cavallo è incantato, lei è sotto l’effetto dell’incantesimo che può essere dissipato solo con certi profumi che conosco. Sire, se volete avere questo piacere, e offrire uno dei più sorprendenti spettacoli alla vostra corte e al popolo della vostra capitale, domani dovrete far portare il cavallo in mezzo alla piazza, davanti al vostro palazzo e affidarvi a me per il resto: prometto di mostrare ai vostri occhi e a quelli di tutta l’assemblea, in pochissimi istanti, la principessa del Bengala tanto sana di mente e di corpo come non è mai stata in vita sua; e affinché la cosa avvenga con tutto lo sfarzo necessario, è opportuno che la principessa indossi un magnifico vestito e si orni con i gioielli più preziosi di Vostra Maestà.” Il sultano di Kashmir avrebbe fatto cose ben più ardue di quelle che gli proponeva il principe di Persia, per giungere al compimento dei suoi desideri, che egli considerava così imminente.

Il giorno dopo, il cavallo incantato fu preso dal tesoro per ordine del sultano e messo di buon mattino nella grande piazza del palazzo; e presto si diffuse la voce in tutta la città che si stava preparando nella piazza qualcosa di straordinario, e tutto il popolo vi accorse da ogni quartiere. Le guardie del sultano si disposero nella piazza per impedire il disordine e lasciare un grande vuoto intorno al cavallo. Il sultano di Kashmir apparve; e, quando ebbe preso posto su un palco circondato dai più importanti signori e ufficiali di corte, la principessa del Bengala, accompagnata da tutte le ancelle che il sultano le aveva assegnato, si avvicinò al cavallo incantato, e le sue ancelle l’aiutarono a salire in sella. Quando si fu sistemata, con i piedi nelle staffe e una briglia in mano, il finto medico fece disporre intorno al cavallo parecchie pentoline piene di fuoco; e, girandovi intorno, gettò in ognuna di esse un profumo composto di parecchi aromi tra i più squisiti. Poi, raccolto in sé stesso, con gli occhi bassi e le mani sul petto, girò tre volte intorno al cavallo, facendo finta di pronunciare delle parole; e, nel momento in cui le pentoline cominciarono insieme a esalare un fumo molto denso e profumatissimo, che circondava la principessa in modo che si faticava a vedere sia lei sia il cavallo, egli scelse il momento opportuno, si gettò agilmente in sella, dietro la principessa, portò la mano sul cavicchio per la partenza e lo girò; e, nel momento in cui il cavallo li sollevava entrambi in aria, pronunciò a voce alta queste parole così distintamente che il sultano stesso le sentì: “Sultano di Kashmir, quando vorrai sposare delle principesse che implorano la tua protezione, impara prima a chiedere il loro consenso.”

Fu così che il principe di Persia ritrovò e liberò la principessa del Bengala e quello stesso giorno la riportò in poco tempo nella capitale della Persia, dove non scese nel palazzo di campagna, ma in mezzo al palazzo reale, davanti all’appartamento del re suo padre; e il re di Persia non rimandò la solennità del matrimonio di suo figlio con la principessa del Bengala se non il tempo necessario per i preparativi, allo scopo di rendere la cerimonia più fastosa e di dimostrare meglio la sua gioia. Appena il numero dei giorni stabiliti per i festeggiamenti fu passato, il primo pensiero del re di Persia fu di nominare e inviare una solenne ambasciata al re del Bengala per riferirgli tutto quanto era successo e per chiedergli l’approvazione e la ratificazione della parentela che aveva contratto con lui per mezzo di questo matrimonio; ratificazione che il re del Bengala, ben informato di tutto, ebbe l’onore e il piacere di accordare.

- Fiaberella
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