Le tre melangole d'amore

C’era una volta una povera vedova che non riusciva a sfamare, con il lavoro di serva, i suoi sette figli; si poteva dire che, dopo la morte del marito, che faceva il boscaiolo e che riusciva in qualche modo a saziare le sette bocche, fossero in nove in casa, essi e la Povertà.

Disse un giorno al più grande dei figli: “Figlio mio, vedi che io non ce la faccio più; esci, trova qualcosa da fare e torna stasera con un tozzo di pane. Ricordati quello che faceva tuo padre per voi.”

Il figlio uscì, cercò un lavoro qualunque in città e in campagna, ma la sera rientrò deluso e a mani vuote.

Allora il più piccolo dei sette, Pinzampino, visti la madre accorata e i fratelli smunti, pensò di offrirsi lui a tentare qualcosa. “Mamma, andrò io in cerca di lavoro; forse avranno compassione di me e qualcosa, stasera, vi riporterò.”

La madre dapprima non volle; era ancora un ragazzo, ignaro della vita, delicato; e poi era quello a cui voleva più bene; e poi il mondo è pieno di pericoli e di agguati e temeva che potesse accadergli qualche guaio.

“Io so quel che devo fare!” la rassicurò il ragazzo, risoluto.

La madre, sollecitata più dalla fame dei figli che dalla propria, acconsentì che il ragazzo tentasse la sorte, ma gli raccomandò più volte di essere prudente e di tornare prima di sera.

Quello, salutati tutti, uscì sulla strada e, fischiettando, si diresse verso la reggia.

Il re, che andava in quel momento passeggiando soprappensiero per le stanze dorate del Palazzo, sentendo l’allegro fischiettio, si affacciò a una finestra, vide Pinzampino che gironzolava tenendo le mani nelle tasche dei calzoni e gli chiese: “Che cerchi da queste parti, ragazzo?”

“Maestà, cerco lavoro.”

“Vuoi venire al mio servizio?”

“Magari, Maestà! Ma…”

“C’è qualcosa che non va?”

“C’è che…ho paura di non essere capace, ho paura di una fortuna così grande.”

“Non preoccuparti, sali lo scalone e vieni da me.”

Pinzampino fece le larghe scale di pietra bianca a tre a tre, senza passare per la guida rossa distesa al centro della gradinata, per paura di sporcarla. Il re l’attendeva sorridendo.

Fattogli una carezza, lo consegnò al maggiordomo perché lo rivestisse a nuovo con la livrea verde gallonata d’oro.

Il ragazzo doveva aiutare nei servizi altri due servitori, piuttosto avanzati in età; essendo sveglio e pieno di buoni propositi, si fece in breve tempo così ben volere dal re che questo finì col non ricorrere più agli altri due, ch’erano sempre stanchi e di corta memoria.

I due, vistisi messi da parte, finirono con l’invidiare e, quindi, con l’odiare il piccolo amico e meditarono a lungo sulla maniera di vendicarsi.

Così un mattino si presentarono al loro signore e gli dissero: “Maestà, siamo venuti alla tua presenza per rivelarti un segreto.”

“Che segreto?”

“Sappi, Maestà, che Pinzampino non fa che vantarsi continuamente con noi di essere a conoscenza di certi fatti misteriosi..”

Il re impallidì a quelle parole e vi pose estrema attenzione.

“Fatti misteriosi?”

“Sì, Maestà. Si tratterebbe di tre melangole d’amore ch’egli sarebbe capace di trovare e di prendere in un giardino lontano…”

Bisogna sapere che il re, pur vivendo tra immensi tesori, era veramente il più infelice degli uomini del suo regno.

Egli aveva tre bellissime figlie che un giorno, chissà per quale influsso malefico, erano state trasformate, da una strega, in tre grandi pomi, alla cui custodia erano stati posti due feroci leoni.

Questo è quanto sapeva con certezza. Il resto era un mistero, e ormai non sperava più di riavere le sue creature.

La regina ne era morta di dolore.

Fece dunque chiamare subito Pinzampino e gli ordinò di mettersi in viaggio alla ricerca delle tre melangole.

Il povero ragazzo cercò di opporre un rifiuto, confessando al suo signore che, in verità, nulla sapeva delle tre melangole d’amore…; che aveva, sì, sentito dire vagamente d’un fatto accaduto anni prima, di cui si parlava nelle case della povera gente; che aveva parlato per burla, per far dispetto ai due vecchi camerieri.

Ma il re non volle sapere né di scuse né di pretesti. Egli aveva intuito che quel ragazzo poteva essere la sua salvezza e quella delle figlie. “O parti alla loro ricerca o ti farò tagliare la testa. Scegli!”

Tra le due alternative Pinzampino scelse la prima.

Salutati la madre e i fratelli, rifornito di viveri e di vino, montato sul miglior cavallo delle scuderie reali, si mise in viaggio.

Attraversò campi e prati, fiumi e radure, risaie e foreste; finalmente, dopo un mese di ininterrotto cammino, arrivò a una capanna solitaria dove abitava un vecchio eremita, la cui magrezza testimoniava una vita di continue penitenze; una lunga barba bianca gli copriva il petto e i capelli canuti gli coprivano le spalle.

“Bravo giovane” chiese l’eremita meravigliato, “come mai sei capitato da queste parti?”

Pinzampino era stanco; scese da cavallo e si mise a sedere su una pietra coperta di muschio, quindi prese a narrare la sua storia al vecchio.

Poi domandò: “Tu non sai niente delle tre melàngole d’amore?”

“No, ragazzo mio, non ne so niente. Ma ti voglio aiutare. Prendi questa fiasca d’acqua, tienila da conto, ti servirà.”

Messasi a tracolla la fiasca e ringraziato l’eremita, Pinzampino riprese la via della foresta; passarono giorni e notti, settimane su settimane, finché arrivò a una seconda capanna.

Qui dimorava un altro eremita, ancora più vecchio del primo,con una barba tanto lunga che gli arrivava ai ginocchi e i capelli così fluenti che gli coprivano i fianchi.

Anch’egli rimase meravigliato di quel ragazzo avventuroso che andava vagando a cavallo tanto lontano dalle terre abitate.

Anche a lui il giovane raccontò la sua storia: “Tu sai dove potrebbero essere nascoste le tre melàngole d’amore?”

“No, figlio mio. Ma voglio aiutarti: eccoti un pezzo di sapone. Ma mi raccomando, conservalo. Ti servirà.”

Pinzampino ripose il sapone nella bisaccia che portava davanti alla sella; ringraziò il vecchissimo eremita, lo salutò e, rimontato a cavallo, riprese il cammino attraverso la foresta.

Non si incontrava anima viva in quel deserto verde, sotto quel cielo azzurro e terso. Nessun sentiero era segnato, ma quel cavallo, a cui si può dire che mancasse solo la parola, se lo sapeva cercare tra cespugli fitti e spinosi; il freddo a volte era intenso, l’umidità metteva i brividi addosso.

Gigantesche orchidee dai colori sgargianti pendevano da alberi alti come torri; radici aeree, scendendo dai rami, toccavano il suolo spugnoso, vi si aggrappavano, risalivano attorcigliandosi ai tronchi verdi di muffe.

Dopo un mese di continuo vagare il ragazzo, ormai sfinito e con gli abiti a brandelli, arrivò a una terza capanna; ne uscì un vecchio più vecchio degli altri due, con una barba ancora più lunga e più bianca e i capelli ancora più fluenti.

Egli disse: “Ragazzo, ho sentito il rumore degli zoccoli e sono uscito. So chi tu sei e che cosa vai cercando. Entra nella mia capanna, riposati e poi parleremo di ciò che ti interessa. Anche il cavallo ha bisogno d’un pò di riposo.”

Pinzampino si ristorò con acqua di sorgente e con certe erbe e frutti che mai aveva assaggiato prima.

Quando il vecchio notò che il ragazzo era desideroso di ascoltarlo, cominciò: “Ora tieni bene a mente quel che ti dico e abbi fiducia in me. Al di là di quella collina c’è un bel giardino custodito da due ferocissimi leoni; essi stanno sdraiati ai due lati d’un cancelletto che si apre e che si chiude continuamente. I leoni, anch’essi, aprono e chiudono gli occhi, ma quando i loro occhi stanno chiusi essi vegliano e quando stanno aperti essi dormono. A questo punto, cioè quando vedi che i loro occhi stanno aperti, tu approfitta, entra d’un balzo nel giardino e cogli i tre pomi, quelli che cerchi. Ma guarda di non attardarti: appena li avrai colti, fuggi il più presto possibile, perché, se i leoni si sveglieranno e si accorgeranno di essere stati colti di sorpresa, cercheranno in tutti i modi di divorarti. Ma voglio venirti in aiuto: prendi questo chiodo; appena ti sentirai in pericolo, gettalo dietro di te. Ora va, e abbi fiducia.”

Pinzampino era rimasto, per tutto il tempo, con gli occhi fissi alla bocca del vecchio per non perdere neppure una sillaba di tutto il discorso.

Finalmente, preso il chiodo e ripostolo nella bisaccia, ringraziò, rimontò a cavallo e riprese il cammino nel bosco.

Dopo un altro mese di viaggio, tra mille ostacoli e trepidazioni, giunse finalmente alla meta.

Il giardino, al di là del cancelletto, era una meraviglia di colori e di odori; i frutti pendevano dai rami fin quasi a spezzarli.

Da un alberello pendevano tre pomi rotondi grandissimi, color d’oro, e ai lati del cancello, che si apriva e si chiudeva da solo, giacevano a guardia i due leoni, che a intervalli aprivano e chiudevano gli occhi.

Ripassò nella mente tutte le raccomandazioni dell’ultimo eremita.

Con l’animo teso saltò giù da cavallo e si avvicinò.

Dopo avere studiato con grande attenzione i movimenti del cancelletto e degli occhi, riuscì a cogliere il momento più opportuno, con un salto fu nel giardino e colse in un attimo le tre melàngole d’amore.

Incredibile a dirsi, mentre le stringeva a fatica tra le mani, quelle si trasformarono in tre stupende creature bionde.

Ma non persero tempo in stupori e in parole: tutti e quattro colsero un altro momento favorevole, che il cancelletto si apriva e gli occhi dei leoni si chiudevano, e di corsa furono fuori, balzarono a cavallo e si misero a galoppo.

Pinzampino a un tratto si voltò indietro, per assicurarsi della buona riuscita dell’impresa, ma vide con orrore che le due belve lo inseguivano infuriate.

Sebbene il cavallo filasse via come una saetta, si sentì perduto.

E non pensava tanto a sé, quanto alle tre principesse, alla madre e ai fratelli, che dovevano essere in attesa e in pensiero per la sua lunga assenza.

Fu in quell’attimo che si ricordò della fiasca del primo eremita: se la sfilò dal collo e la tirò via.

Ecco che dietro di loro si formò un vastissimo lago.

I leoni furono costretti a fermarsi di fronte all’improvviso ostacolo e Pinzampino continuò a galoppare, ormai senza più l’assillo dell’inseguimento.

Tuttavia le belve erano riuscite a trovare un guado e a riguadagnare terreno, perché anch’esse correvano come il vento dietro le orme del cavallo.

E quando Pinzampino si voltò ancora a guardarsi indietro,più per contemplare il miracolo del lago che per la paura dei leoni,ecco che se li rivide alle calcagna con occhi di fuoco.

Era atterrito.

Ma una delle fanciulle gli ricordo che aveva con sé,nella bisaccia,il sapone del secondo eremita; il giovane lo prese e lo gettò dietro di sé: una montagna irta e brulla si elevò tra lui e i leoni, spaventosa per i suoi precipizi.

Ma mentre Pinzampino galoppava a briglia sciolta portando con sé i tre tesori, i leoni, cacciando le unghie nella roccia, erano riusciti ad arrampicarsi fin sulla cima e a ridiscenderne, per riprendere l’inseguimento.

Fu allora che il giovane prese il chiodo e, senza esitare, lo gettò via.

Come un prodigio mai visto, dietro di loro si formò una foresta tanto folta e intricata che le due belve furiose furono costrette a fermarsi, essendo rimaste impigliate tra i rami e le radici, e a tornare indietro.

I quattro, sempre a galoppo sfrenato, stanchi, ma felici.

Dopo qualche giorno arrivarono alla porta della città e vi entrarono tra gli applausi della popolazione, che accorreva da ogni parte.

Potete immaginare quale fosse la stizza dei due vecchi servitori e la felicità di quel re infelice.

Si fece una festa che durò tre giorni, durante i quali il sovrano promise al coraggioso cavaliere la mano della più giovane delle sue figlie e la corona del regno.

Pinzampino era tornato a casa per riabbracciare la madre e i fratelli e per raccontare le avventure che gli erano occorse al Palazzo, nella foresta, nel giardino incantato e lungo la via del ritorno.

E aggiunse che aveva perdonato i due servitori, i quali senza volerlo, avevano costruito la sua fortuna.

Il giorno delle nozze era vicino; tutti erano presi dai preparativi e il popolo attendeva con ansia la cerimonia. Il re e Pinzampino andavano in giro ad invitare parenti e amici.

Una mattina la giovane sposa, stando al balcone della sua camera, era intenta a spazzolarsi lentamente i lunghi capelli biondi, mentre ammirava le montagne e le pianure e i fiumi, quando scorse, presso una fontanella del giardino, una strana vecchietta, che reggeva tra le mani una brocchetta di coccio.

La principessa, quasi per fare uno scherzo innocente, staccò un pezzetto di calcinaccio dal muro e lo lanciò contro la brocchetta, che, colpita in pieno, si spezzò in mille frantumi.

La vecchietta guardò in su, vide la bionda fanciulla e la invitò a scendere in giardino; aveva una voce allettante; voleva avere l’onore, diceva, di pettinarle i bei capelli.

La principessa si schermì con grazia, adducendo mille pretesti, ma alla fine, all’insistenza della strana vecchia, che appariva piuttosto simpatica, mise da parte ogni esitazione e scese alla fontana.

Sulle labbra della sconosciuta si disegnò allora un sorriso maligno: mentre la pettinava, si trasse uno spillo dal seno e le punse il capo.

La principessa in un attimo, si trasformò in bianca colomba e volò via e la vecchia, in fretta e furia indossò le vesti che quella aveva lasciato presso la fontana, salì in camera e rimase in attesa.

A sera, il re e Pinzampino tornarono dal loro giro e bussarono alla porta della principessa, desideroso di riabbracciarla e di metterla al corrente dei preparativi; ma enorme fu la loro sorpresa nel trovarsi di fronte, al posto della splendida fanciulla, una vecchia orribile e disgustosa.

Ma ormai non c’era più nulla da fare, gli inviti erano stati fatti e le nozze non si potevano più rimandare.

Forse il destino aveva voluto così e bisognava rassegnarsi.

Venne dunque il giorno delle nozze, che furono celebrate tra i rintocchi a festa di tutte le campane della città, e Pinzampino ebbe la corona di re.

Dopo la cerimonia, sposi e invitati si ritirarono a banchettare nella grande sala.

In cucina i cuochi più raffinati del regno si apprestavano a sfornare le deliziose vivande quando, da una finestrella in alto, si affacciò una colomba bianca, che disse:

“O cuochi della mia cucina, che fa il re con la saracina?”

I cuochi, udite le parole, strabiliati dalla prodigiosa apparizione, corsero dal giovane re e lo misero al corrente di quanto avevano visto e sentito.

La vecchia, al suo fianco, udito il fatto, sghignazzò, dicendo che erano sciocchezze e fantasie; ma Pinzampino, accorto, ordinò ai cuochi di afferrare e di portagli, come dono di nozze, la misteriosa colomba.

I cuochi, lieti di rendere felice il nuovo sovrano, tornati in cucina, si appostarono ai lati della finestrella e attesero. Sentirono un fruscio d’ali; risentirono la medesima voce vellutata:

“O cuochi della mia cucina, che fa…”

Ma non ebbe il tempo di finire quel verso, perché fu catturata e portata al re, che la prese dolcemente tra le mani.

Mentre la sposa impostora protestava perché si vedeva trascurata dal marito, che mostrava di avere più cura d’una colomba che d’una regina, Pinzampino, accarezzando la candida creatura, si accorse che sul capino v’era una protuberanza, come una boccetta (che s’era formata dalla capocchia dello spillo!).

L’afferrò, la tirò su e accadde che… Tra la meraviglia di tutti i presenti la bianca colomba s’era trasformata in una fanciulla incantevole vestita da sposa.

Era la figlia più giovane del re! Pinzampino, al colmo della felicità, si alzò per stringersi sul cuore la sua sposa:

“Finalmente ti ho ritrovata! Ti ho ritrovata per la seconda volta!”

La vecchia che, come avrete capito, altri non era che la strega che aveva già tramutato le tre sorelle nelle tre melangole, si vide perduta e non seppe che cosa dire né fare.

Per ordine del vecchio re fu consegnata al boia e la sera stessa, avvolta in una coperta di pece, fu bruciata viva in mezzo alla piazza della città, alla presenza di tutto il popolo.

Ora tutti i misteri erano stati chiariti.

Gli sposi dimenticarono, col tempo, le loro dolorose vicende e vissero felici e sereni, circondati da una nidiata di figli e di figlie, uno più grazioso dell’altro.

 

- Fiaberella
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