La fiaba di Aladino e della lampada magica-Parte II

Aladino, che non si aspettava la malvagità del suo falso zio, dopo le affettuosità e il bene che gli aveva fatto, fu preso da uno stupore più facile da immaginare che da descrivere con le parole. Quando si vide sepolto vivo, chiamò mille volte lo zio, gridando che era pronto a dargli la lampada; ma le sue grida erano inutili, e non c’era più modo di essere ascoltato; perciò rimase nelle tenebre e nell’oscurità. Infine, dopo aver dato un po’ di tregua alle sue lacrime, scese fino in fondo alla scala del sotterraneo per andare a cercare la luce del giardino che aveva già attraversato, ma il muro, che si era aperto per incantesimo, si era chiuso e ricongiunto per un altro incantesimo. Va un po’ innanzi a tentoni a destra e a sinistra, per parecchie volte, e non trova più la porta: raddoppia le sue grida e i suoi pianti, e si siede su un gradino del sotterraneo, disperando di rivedere mai più la luce, anzi con la triste certezza di passare dalle tenebre in cui era in quelle di una prossima morte. Aladino restò due giorni in questo stato, senza mangiare né bere: il giorno, infine, considerando la morte inevitabile, congiunse le mani alzandole al cielo; e, con una completa rassegnazione alla volontà di Dio, esclamò: “Non c’è forza e potenza se non in Dio, l’alto, il grande!” Nel congiungere le mani, fregò, senza farci caso, l’anello che il mago africano gli aveva messo al dito e di cui non conosceva ancora la virtù. Subito un genio, dalla figura enorme e dallo sguardo spaventoso, si alzò davanti a lui, come se venisse da sotto terra, fino a raggiungere la volta con la testa, e disse ad Aladino queste parole: “Che vuoi? Sono pronto a ubbidirti, come tuo schiavo e schiavo di tutti quelli che hanno l’anello al dito, io e gli altri schiavi dell’anello.” In un altro momento e in un’altra occasione, Aladino, che non era abituato a simili visioni, sarebbe stato preso dal terrore e avrebbe potuto perdere la parola vedendo una figura così straordinaria, ma, preoccupato soltanto del pericolo presente in cui si trovava, rispose senza esitare: “Chiunque tu sia, fammi uscire da questo posto, se ne hai il potere.” Appena ebbe pronunciato queste parole la terra si spalancò ed egli si trovò fuori del sotterraneo, proprio nel posto in cui il mago l’aveva. Non bisogna stupirsi se Aladino, che era rimasto così a lungo nelle tenebre più fitte, in un primo momento stentasse a sopportare la piena luce. A poco a poco i suoi occhi vi si abituarono; e, guardandosi intorno, fu molto stupito di non vedere nessuna apertura nella terra. Non riuscì a capire come avesse potuto trovarsi così rapidamente fuori delle sue viscere; solo il posto in cui era stata bruciata la sterpaglia secca gli fece riconoscere, all’incirca, dove fosse il sotterraneo. Poi, rivolgendosi verso la città, la vide in mezzo ai giardini che la circondavano; riconobbe il sentiero lungo il quale il mago africano l’aveva guidato, e lo imboccò, rendendo grazie a Dio di rivedersi di nuovo al mondo, dopo aver disperato di mai più ritornarvi.

Arrivò fino alla città e si trascinò a casa con molta fatica. Entrando in casa di sua madre, la gioia di rivederla, unita alla debolezza per non aver mangiato da quasi tre giorni, gli provocò uno svenimento che durò un po’ di tempo; la madre, che l’aveva già pianto come perduto o come morto, vedendolo in quello stato non tralasciò niente per farlo tornare in sé. Finalmente egli si riebbe dallo svenimento; e le prime parole che pronunciò furono: “Mamma, prima di ogni cosa, vi prego di darmi da mangiare; da tre giorni non tocco cibo.” Sua madre gli portò quello che aveva; e, mettendoglielo davanti, gli disse: “Figlio mio, non mangiate in fretta, è pericoloso; mangiate poco per volta e a vostro agio; abbiate prudenza, ché ne avete bisogno. Non voglio neanche che mi parliate: avrete abbastanza tempo per raccontarmi quello che vi è successo, quando vi sarete ben ristabilito. Sento una grande consolazione rivedendovi, dopo il dolore del quale sono preda da venerdì, e tutte le pene che mi sono presa per sapere che cosa vi fosse capitato, appena vidi che era notte e non eravate tornato a casa. Aladino seguì il consiglio di sua madre: mangiò tranquillamente e poco per volta, e bevve in proporzione. Quando ebbe finito, disse: “Mamma, dovrei rivolgervi molti rimproveri per avermi abbandonato con tanta leggerezza alla discrezione di un uomo che aveva l’intenzione di rovinarmi e che ora, mentre vi parlo, considera la mia morte così inevitabile da essere certo che io sia già morto o che stia per morire; ma voi avete creduto che fosse mio zio, e io l’ho creduto come voi. Eh! potevamo pensare altro di un uomo che mi riempiva di carezze e di beni e mi faceva tante altre lusinghiere promesse? Sappiate, mamma, che è solo un traditore, un malvagio e un furfante. Mi ha fatto tanto bene e tante promesse solo per arrivare allo scopo che si era prefisso, quello di rovinarmi come ho detto, senza che né voi né io possiamo indovinarne la causa. Quanto a me, posso assicurare che non ho dato nessun motivo per meritare il minimo maltrattamento. Lo capirete voi stessa dal fedele racconto che ora vi farò di tutto quello che è successo dal momento in cui mi sono separato da voi, fino all’esecuzione del suo terribile disegno.”

Aladino cominciò a raccontare alla madre tutto ciò che gli era successo col mago dal venerdì, quando era venuto a prenderlo per portarlo a vedere i palazzi e i giardini che sorgevano fuori della città; ciò che accadde lungo il percorso, fino alle due montagne dove doveva operarsi il grande prodigio del mago; come, con un profumo gettato sul fuoco e qualche parola magica, la terra si fosse spalancata in un momento e avesse mostrato l’ingresso di un sotterraneo che conduceva a un tesoro inestimabile. Non dimenticò lo schiaffo che aveva ricevuto dal mago, né di raccontare in che modo quello, dopo essersi un po’ calmato, lo avesse esortato con grandi promesse, mettendogli il suo anello al dito, a scendere nel sotterraneo. Non omise nessun particolare di tutto quanto aveva visto, passando e ripassando nelle tre sale, nel giardino e sulla terrazza dove aveva preso la lampada meravigliosa che mostrò a sua madre, tirandosela fuori del petto, insieme con i frutti trasparenti e di differenti colori che aveva colto nel giardino sulla via del ritorno, ai quali aggiunse due borse piene che diede alla madre e alle quali ella fece poco caso. Questi frutti erano, tuttavia, pietre preziose. Lo splendore, brillante come il sole, che essi emanavano alla luce di una lampada che rischiarava la stanza, doveva far capire il loro grande valore. Ma la madre di Aladino non aveva in questo campo maggiori conoscenze di suo figlio. Era stata allevata in condizioni molto mediocri e suo marito non aveva avuto beni sufficienti per regalarle quel tipo di pietre preziose. D’altronde, lei non ne aveva mai viste a nessuna delle sue parenti o delle sue vicine; perciò non bisogna stupirsi se le considerava solo cose di poco valore e buone almassimo a rallegrare la vista con la varietà dei loro colori, così che Aladino le mise dietro uno dei cuscini del divano sul quale era seduto. Finì di raccontare la sua avventura dicendole che, quando fu tornato dal giardino e si fu presentato all’ingresso del sotterraneo, pronto a uscirne, avendo rifiutato al mago di dargli la lampada che egli gli chiedeva, l’ingresso del sotterraneo si era richiuso in un istante, grazie al potere del profumo che il mago aveva gettato nel fuoco, che non aveva lasciato spegnere, e delle parole che aveva pronunciato. Ma non poté dire altro senza piangere, descrivendole il disgraziato stato in cui si era trovato, quando si era visto sepolto vivo nel fatale sotterraneo, fino al momento in cui era uscito e in cui, per così dire, era ritornato al mondo toccando il suo anello del quale non conosceva ancora la virtù.

Quando ebbe finito questo racconto disse a sua madre: “Non è necessario dirvi altro; il resto lo conoscete. Ecco quale e quale pericolo ho corso da quando non mi avete visto.” La madre di Aladino ebbe la pazienza di ascoltare, senza interromperlo, questo racconto fantastico e stupefacente e, insieme, così doloroso per una madre che amava teneramente il figlio, nonostante i suoi difetti. Tuttavia nei punti più commoventi e che meglio dimostravano la perfidia del mago africano, ella non poté impedirsi di dimostrare quanto lo detestava con segni di indignazione; ma appena Aladino ebbe finito, si scagliò in mille ingiurie contro quell’impostore; lo chiamò traditore, perfido, barbaro, assassino, ingannatore, mago, nemico e distruttore del genere umano. “Sì, figlio mio,” aggiunse, “è un mago, e i maghi sono una pubblica: sono in rapporto con i demoni per mezzo dei loro incantesimi e delle loro stregonerie. Benedetto sia Dio, che non ha permesso a quella sterminata malvagità di avere tutto il suo effetto contro di voi! Dovete ringraziarlo molto della grazia che vi ha fatto! La morte era inevitabile per voi, se non vi foste ricordato di lui e non aveste implorato il suo aiuto.” Lei disse ancora molte cose, sempre contro il tradimento che il mago aveva fatto a suo figlio; ma, mentre parlava, si accorse che Aladino, che non aveva dormito da tre giorni, aveva bisogno di riposo. Lo fece coricare; e poco dopo si coricò anche lei. Aladino che non si era affatto riposato nel sotterraneo dov’era stato sepolto affinché perdesse la vita, dormì tutta la notte di un sonno profondo e si svegliò solo il giorno dopo, molto tardi. Si alzò, e per prima cosa disse a sua madre che aveva bisogno di mangiare e che lei non poteva fargli piacere maggiore di quello di dargli la colazione. “Ahimè! figlio mio,” gli rispose la madre, “non posso darvi neppure un pezzo di pane; ieri sera avete mangiato le poche provviste che c’erano in casa; ma abbiate un po’ di pazienza; non starò a lungo senza portarvene. Ho un po’ di cotone che ho già filato; vado a venderlo per comprarvi del pane e qualcosa per il pranzo.” “Mamma,” rispose Aladino, “riservate il vostro cotone per un’altra occasione e datemi la lampada che ho portato ieri; andrò a venderla, e il denaro che ne ricaverò ci servirà a comprare il necessario per far colazione, pranzare, e forse anche cenare.” La madre di Aladino prese la lampada da dove l’aveva messa: “Eccola,” disse al figlio, “ma è molto sporca; se la puliamo un po’, credo che varrà qualcosa in più.” Prese dell’acqua e un po’ di sabbia fine per pulirla, ma appena ebbe cominciato a strofinare la lampada, subito, in presenza del figlio, un orribile genio di statura gigantesca si innalzò e comparve davanti a lei, e le disse con voce tonante: “Che vuoi? Sono pronto a ubbidirti, come tuo schiavo e schiavo di tutti quelli che hanno la lampada in mano, io e gli altri schiavi della lampada.” La madre di Aladino non era in condizione di rispondere: il suo sguardo non era riuscito a sopportare l’orribile e spaventosa figura del genio; e, alle prime parole che quello aveva pronunciato, il suo terrore era stato così grande che era caduta svenuta. Aladino che, nel sotterraneo, aveva già avuto un’apparizione quasi simile, senza perder tempo neppure la testa, afferrò subito la lampada e sostituendosi alla madre, rispose per lei in tono fermo: “Ho fame,” disse al genio; “portami da mangiare.” Il genio scomparve e, un momento dopo, tornò portando sulla testa un grande vassoio d’argento con dodici piatti dello stesso metallo pieni di cibi squisiti, sei grandi pani bianchi come neve, due bottiglie di vino eccellente e tenendo in mano due coppe d’argento. Posò tutto sul divano e subito sparì.

Questo avvenne così rapidamente, che la madre di Aladino non si era ancora riavuta dal suo svenimento quando il genio sparì per la seconda volta. Aladino, che aveva già cominciato a gettarle l’acqua in viso, senza risultato, si accinse a ricominciare per farla rinvenire ma sia che i suoi sensi, che si erano dispersi, si fossero infine riuniti, o che l’odore dei cibi portati dal genio vi contribuisse in qualche modo ella tornò in sé. “Mamma,” le disse Aladino, “non è niente; alzatevi e venite a mangiare; ecco quel che ci vuole per farvi star meglio e, nello stesso tempo, per soddisfare il mio grande bisogno di mangiare. Non lasciamo raffreddare dei cibi così buoni, e mangiamo.” La madre di Aladino fu grandemente stupita vedendo il grande vassoio, i dodici piatti, i sei pani, le due bottiglie e le due coppe, e sentendo l’odore delizioso che veniva da tutti quei piatti. “Figlio mio,” chiese ad Aladino, “da dove ci viene questa abbondanza, e a chi siamo debitori di tanta prodigalità? Forse il sultano è venuto a conoscenza della nostra povertà e ha avuto compassione di noi?” “Mamma,” riprese Aladino, “mettiamoci a tavola e mangiamo: ne avete bisogno quanto me. Risponderò a quanto mi chiedete, dopo che avremo mangiato.” Si misero a tavola, e mangiarono con tanto più appetito in quanto né la madre né il figlio si erano mai trovati a una tavola così ben fornita. Mentre mangiavano, la madre di Aladino non poteva stancarsi d ammirare il vassoio e i piatti, anche se non sapeva distinguere bene se fossero d’argento o di un altro materiale, così poco era abituata a vederne di simili; e, a dire il vero, senza considerare il loro valore, che ignorava, la sua ammirazione era provocata solo dalla novità, e suo figlio Aladino non ne sapeva più di lei. Aladino e sua madre, che pensavano di fare solo una semplice colazione, stavano ancora a tavola all’ora del pranzo: quei cibi eccellenti avevano stuzzicato il loro appetito, e, dato che erano ancora caldi, essi pensarono di non far male a riunire i due pasti insieme e a farne uno solo. Finito il doppio pasto, restò loro non solo il necessario per cenare, ma anche abbastanza cibo da fare due pasti ugualmente sostanziosi il giorno dopo. Quando la madre di Aladino ebbe sparecchiato e conservato i cibi che non avevano toccato, andò a sedersi sul divano, vicino al figlio. “Aladino,” gli disse, ” aspetto con impazienza di sentire il che mi avete promesso.” Aladino le raccontò esattamente tutto ciò che era successo tra lui e il genio, dal momento in cui lei era svenuta fino a quando era tornata in sé. La madre di Aladino era grandemente stupita dal discorso del figlio e dall’apparizione del genio. “Ma, figlio mio,” riprese, “che significano questi geni? Da che sono al mondo, non ho mai sentito dire che nessun mio conoscente ne abbia visti. Per quale ragione quel brutto genio si è presentato a me? Perché si è rivolto a me e non a voi, visto che vi era già apparso nel sotterraneo del tesoro?” “Mamma” replicò Aladino “il genio che vi è apparso non è lo stesso che è apparso a me: si rassomigliano, in un certo senso, per la loro statura da giganti; ma la loro espressione e i loro vestiti sono completamente diversi: perciò essi appartengono a padroni diversi. Se ricordate, quello che ho visto io si è dichiarato schiavo dell’anello che ho al dito; e quello apparso a voi si è dichiarato schiavo della lampada che avevate in mano. Ma non credo che voi l’abbiate sentito: infatti mi pare che siate svenuta appena ha cominciato a parlare. “Come!” esclamò la madre di Aladino, “è dunque a causa della vostra lampada che quel brutto genio si è rivolto a me piuttosto che a voi? Ah, figlio mio! levatemela da davanti agli occhi e mettetela dove volete; non voglio più toccarla. Preferisco che sia gettata o venduta piuttosto che correre il rischio di morire di terrore toccandola. Se date retta a me, dovete disfarvi anche dell’anello. Non bisogna aver rapporti con i geni: sono demoni e il nostro profeta l’ha detto. “Mamma,” rispose Aladino, “col vostro permesso, ora mi guarderò bene dal vendere, come stavo per fare poco fa, una lampada che sarà tanto utile a entrambi. Non vedete che cosa ci ha procurato? Essa deve continuare a fornirci di che nutrirci e mantenerci. Dovete capire come me che il mio falso e cattivo zio non aveva fatto tanta fatica e non aveva intrapreso un viaggio così lungo e faticoso senza ragione, ma per entrare in possesso di questa lampada meravigliosa, che egli aveva preferito a tutto l’oro e l’argento che sapeva esserci nelle sale che io stesso ho visto, proprio come mi aveva detto. Egli conosceva troppo bene il merito e il valore di questa lampada, da chiedere altre cose al posto di un tesoro così ricco. Poiché il caso ce ne ha fatto scoprire la virtù facciamone un uso che ci sia utile, ma senza chiasso, in modo da non attirarci l’invidia e la gelosia dei nostri vicini. Ve la toglierò da davanti agli occhi e la metterò in un posto dove la troverò quando ce ne sarà bisogno, visto che i geni vi fanno tanta paura. Quanto all’anello, non saprei decidermi a gettarlo: senza quest’anello non mi avreste mai rivisto; e se in questo momento fossi stato ancora vivo, lo sarei stato solo per pochi momenti. Permettetemi dunque di tenerlo e di portarlo sempre al dito con molta precauzione. Chi sa, forse mi capiterà qualche altro pericolo che né voi né io possiamo prevedere, dal quale potrà liberarmi.”

Poiché il ragionamento di Aladino sembrava molto giusto, sua madre non ebbe niente da replicare. “Figlio mio,” gli disse, “fate come volete; quanto a me, non vorrei avere a che fare con dei geni. Vi dichiaro che me ne lavo le mani e non ve ne parlerò più.” La sera dopo, finito di cenare, non restò niente dei buoni cibi portati dal genio. Il giorno dopo Aladino, che non voleva aspettare che la fame lo pungolasse, prese uno dei piatti d’argento, se lo mise sotto l’abito e uscì fin dal mattino per andare a venderlo. Si rivolse a unebreo incontrato lungo la strada; lo prese in disparte e, mostrandogli il piatto, gli chiese se voleva comprarlo. L’ebreo, furbo e accorto, prende il piatto, lo esamina; e appena ebbe capito che era di buon argento, chiese ad Aladino quanto volesse. Aladino, che non ne conosceva il valore e non aveva mai fatto commercio di questi articoli, si accontentò di dirgli che lui doveva ben sapere quanto potesse valere il piatto, e che si rimetteva alla sua buona fede. L’ebreo si trovò imbarazzato dall’ingenuità di Aladino. Non sapendo con certezza se Aladino ne conoscesse la materia e il valore, tirò fuori dalla borsa una moneta d’oro, che a malapena costituiva la settantaduesima parte del valore del piatto, e gliela diede. Aladino si affrettò a prendere la moneta e, appena la ebbe fra le mani, se ne andò con tanta rapidità che l’ebreo, non contento dell’esorbitante guadagno da lui ottenuto con quell’acquisto si seccò molto di non aver capito che Aladino ignorava il valore di quello che gli aveva venduto e che perciò egli avrebbe potuto dargli molto di meno. Fu sul punto di correre dietro al ragazzo, per cercare di avere un po’ di resto dalla sua moneta d’oro, ma Aladino correva, ed era già così lontano che avrebbe faticato a raggiungerlo. Aladino, mentre tornava dalla madre, si fermò da un fornaio, dove acquistò del pane per sé e per sua madre, pagandolo con la moneta d’oro che il fornaio gli cambiò. Arrivando a casa, diede il resto a sua madre che andò al mercato a comprare le provviste necessarie al loro vitto di qualche giorno.

Continuarono così a vivere in economia, cioè Aladino vendette tutti i piatti all’ebreo, l’uno dopo l’altro fino al dodicesimo, come aveva venduto il primo, via via che il denaro veniva a mancare in casa L’ebreo che aveva pagato il primo una moneta d’oro, non osò offrirgli di meno per gli altri, temendo di perdere un così buon guadagno inaspettato: li pagò tutti allo stesso prezzo. Quando il denaro dell’ultimo piatto fu speso, Aladino ricorse al vassoio, che da solo pesava dieci volte ogni piatto. Volle portarlo al solito mercante, ma il gran peso del vassoio glielo impedì. Fu dunque costretto ad andare a chiamare l’ebreo e a portarlo da sua madre; e l’ebreo, dopo aver soppesato il vassoio, gli diede subito dieci monete d’oro di cui Aladino si accontentò. Finché durarono, le dieci monete d’oro servirono alla spesa giornaliera della casa. Intanto Aladino, abituato a una vita oziosa, dopo la sua avventura con il mago africano aveva perso l’abitudine di giocare coi ragazzi della sua età. Passava le giornate a passeggiare o a intrattenersi con persone con le quali aveva fatto conoscenza. A volte si tratteneva nelle botteghe dei ricchi mercanti, dove prestava attenzione ai discorsi della gente distinta che vi si fermava o che vi si ritrovava come a una specie di appuntamento; e a poco a poco questi discorsi fecero sì che egli cominciasse ad avere una certa conoscenza del mondo.

Quando le dieci monete d’oro furono finite, Aladino ricorse alla lampada: la prese in mano, cercò lo stesso punto in cui l’aveva toccata sua madre; e, appena lo trovò grazie al segno che la sabbia vi aveva lasciato, la strofinò come aveva fatto lei; e subito il genio, apparso la prima volta, si presentò davanti a lui; ma, poiché Aladino aveva strofinato la lampada più leggermente di quanto avesse fatto la madre, anche il genio gli parlò con tono più dolce: “Che vuoi?” gli disse con le stesse parole dell’altra volta, “sono pronto a ubbidirti, come tuo schiavo e schiavo di tutti coloro che hanno la lampada in mano, io e gli altri schiavi della lampada.” Aladino gli disse: “Ho fame, portami da mangiare.” Il genio scomparve e tornò poco dopo portando un servizio da tavola simile a quello che aveva portato la prima volta; lo posò sul divano e subito sparì. La madre di Aladino, informata dell’intenzione del figlio, era uscita di proposito per qualche affare per non trovarsi in casa all’apparizione del genio. Tornò poco dopo, vide la tavola e la credenza molto ben fornita e restò meravigliata, quasi come la prima volta, vedendo il prodigioso effetto della lampada. Aladino e la madre si misero a tavola; e dopo il pasto, restò loro ancora di che vivere largamente per i due giorni seguenti. Appena Aladino vide che in casa non c’era più pane né altre provviste, né denaro per comprarne, prese un piatto d’argento e andò a cercare l’ebreo che conosceva, per venderglielo. Lungo il percorso, passò davanti alla bottega di un orefice rispettabile per la sua vecchiaia, uomo onesto e di grande onestà. L’orefice, che lo aveva visto, lo chiamò e lo fece entrare. “Figlio mio,” gli disse, “vi ho già visto passare parecchie volte, portando un pacco come ora, incontrarvi con un certo ebreo e ripassare dopo senza il pacco. Ho pensato che voi gli vendete quello che portate. Ma forse non sapete che quell’ebreo è un imbroglione, e anche più imbroglione degli altri ebrei, e che nessuno di quelli che lo conoscono vuole avere a che fare con lui. Del resto, vi dico questo solo per farvi un piacere, se volete mostrarmi quello che state portando adesso e volete venderlo, vi darò esattamente il suo giusto se questo mi conviene; altrimenti vi indirizzerò da altri mercanti che non vi inganneranno.” La speranza di ricavare più denaro dal piatto fece sì che Aladino lo tirasse fuori da sotto il vestito e lo mostrasse all’orefice. Il vecchio, accorgendosi subito che il piatto era d’argento fino, gli chiese se ne avesse venduti di simili all’ebreo e quanto questi glieli avesse pagati. Aladino gli disse ingenuamente di avergliene venduti dodici, e di aver ricevuto dall’ebreo solo una moneta d’oro per ognuno. “Ah, che ladro!” esclamò l’orefice. “Figlio mio, aggiunse, quel che è fatto è fatto; non bisogna pensarci più; ma quando vi avrò detto quanto vale il vostro piatto, e che è del migliore argento di cui ci serviamo nelle nostre botteghe, capirete quanto l’ebreo vi abbia ingannato.” L’orefice prese la bilancia, pesò il piatto e dopo avere spiegato a che cosa fosse un marco d’argento, quanto valesse e quali fossero le sue suddivisioni, gli dichiarò che, per il suo peso, il piatto valeva settantadue monete d’oro che subito gli pagò in moneta contante. “Questo,” disse, “è il giusto valore del vostro piatto. Se ne dubitate potete rivolgervi a uno dei nostri orefici a vostra scelta; e, se vi dice che vale di più, vi prometto di pagarvelo il doppio. Noi guadagniamo solo la lavorazione sull’argenteria che compriamo; e questo non lo fanno neppure gli ebrei più onesti.” Aladino ringraziò calorosamente l’orefice per la buona accoglienza che gli aveva fatto e dalla quale ricavava già un così grande vantaggio. Successivamente non si rivolse più ad altri se non a lui per vendere gli altri piatti e il vassoio, il cui giusto valore gli fu sempre pagato in proporzione al peso.

Sebbene Aladino e sua madre avessero nella lampada una fonte inesauribile di denaro, potendosene procurare quanto ne volevano quando fosse venuto a mancare, tuttavia continuarono sempre a vivere con la stessa frugalità di prima, a parte quello che Aladino riservava per vivere onestamente e procurarsi le comodità necessarie alla loro piccola famiglia. Sua madre, d’altra parte, prendeva il denaro per i suoi abiti solo da quello che guadagnava filando il cotone. Con un tenore di vita così sobrio, è facile capire quanto tempo doveva essere durato loro il denaro dei dodici piatti e del vassoio al prezzo a cui Aladino li aveva venduti all’orefice. Vissero così per alcuni anni, con l’aiuto della lampada, alla quale Aladino ricorreva ogni tanto.

Intanto, Aladino, che continuava a frequentare con molta assiduità le persone distinte che si riunivano nelle botteghe dei più ricchi mercanti di drappi ricamati d’oro e d’argento, di stoffe di seta delle tele più fini e di gioiellerie, e che a volte interveniva nelle loro conversazioni, finì di educarsi, e pian piano acquistò tutte le maniere del bel mondo. Appunto frequentando i gioiellieri si ricredette sulla sua idea che i frutti trasparenti che aveva colti nel giardino del sotterraneo fossero solo vetro colorato, e seppe che erano pietre di grande valore. Vedendo continuamente vendere e comprare nelle loro botteghe tutti i tipi di queste pietre, cominciò a conoscerle e a valutarle; e poiché non ne vedeva di simili alle sue né per la bellezza né per grossezza, capì che, invece di pezzi di vetro che egli aveva considerato delle bagatelle, possedeva un inestimabile tesoro. Ebbe la prudenza di non parlarne a nessuno, nemmeno a sua madre; e certamente il suo silenzio gli valse l’alta condizione che, come vedremo poi, egli raggiunse.

- Fiaberella
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