La fiaba di Nùr ad-Dìn Alì e di Badr ad-Dìn Hassan- Parte I

Principe dei credenti, c’era un tempo in Egitto un sultano, grande osservatore della giustizia, benefico, misericordioso, liberale, e il suo valore lo rendeva temibile per i suoi vicini. Egli amava i poveri, proteggeva i dotti, e li innalzava alle prime cariche dello stato. Il visir di quel sultano era uomo prudente, saggio, penetrante, consumato nelle belle lettere e in tutte le scienze. Quel ministro aveva due figli molto ben fatti, i quali camminavano sulle orme sue, il primogenito si chiamava Muhammad Shams ad-Dìn e il cadetto, Nùr ad-Dìn Alì. Essendo morto il visir loro padre il sultano li mandò a cercare e, avendoli fatti rivestire entrambi di una veste di visir: “Io sono addolorato” disse loro “della perdita che avete avuto, e non ne sono meno commosso di voi, poiché so che abitate insieme e siete perfettamente uniti, vi gratifico entrambi della stessa dignità. Andate, e imitate vostro padre.” I due nuovi visir ringraziarono il sultano della sua bontà, e si ritirarono a casa loro, dove presero cura dei funerali del proprio padre.

A capo di un mese fecero la loro prima uscita, andarono per la prima volta al consiglio del sultano e poi continuarono ad assistervi regolarmente nei giorni in cui si radunava. Un giorno, mentre si intrattenevano dopo cena di cose indifferenti, ed era la vigilia di una caccia, in cui il primogenito doveva accompagnare il sultano, questo giovane disse al fratello minore: “Fratello mio, poiché non siamo ancora ammogliati e viviamo in così buona armonia, mi è venuto un pensiero, sposiamo in uno stesso giorno due sorelle da scegliere in qualche famiglia a modo. Che ne dite di questa idea?” “Dico, fratello mio, che è eccellente. Non si può pensare di meglio e per conto mio sono pronto a far il piacere vostro.” “Oh! non è ancora tutto” ripigliò Muhammad Shams ad-Dìn “la mia immaginazione, va più in là, e supposto che le nostre mogli concepiscano la prima notte delle nostre nozze e poi si sgravino lo stesso giorno, la vostra di un figlio e la mia di una figlia, noi li mariteremo insieme.”

“Benissimo” rispose il cadetto “benone, vi acconsento di gran cuore, solo vorrei sapere se pretendereste che mio figlio dovesse dare una dote a vostra figlia.” “Naturalmente” soggiunse il primogenito. “E in questo non andiamo d’accordo” replicò il cadetto “il maschio essendo più nobile della femmina, spetterebbe a voi dare una buona dote a vostra figlia.” “Guai a vostro figlio!” riprese adirato il primogenito “mi meraviglio come abbiate ardito crederlo degno di mia figlia, sappiate, temerario, che mando a monte ogni cosa, non volendo assolutamente maritare mia figlia  con vostro figlio, quando anche gli deste dieci volte più di quanto possedete.” Simile bizzarra questione sorta fra due fratelli sul matrimonio dei loro figli non ancora nati, non lasciò di procedere molto innanzi e Muhammad Shams ad-Dìn si infuriò al punto di arrivare alle minacce. “Se domani” disse “non dovessi andare ad accompagnare il sultano a  caccia vi tratterei come meritate, ma al mio ritorno ne riparleremo, state tranquillo” quindi si ritirò nel suo appartamento.

L’indomani si alzò per tempo e si recò dal sultano. In quanto a Nùr ad-Dìn Alì,  dopo aver passato una notte agitatissima, vedendo che non era più possibile continuare a vivere con un fratello, il quale lo trattava con tanta alterigia, fece preparare una mula, si fornì di denaro, di pietre preziose e di viveri e, dopo aver avvertito la sua gente che egli andava a fare un viaggetto di due o tre giorni, partì. Appena fu uscito dal Cairo prese la via del deserto, senonché essendo morta la sua mula, dovette proseguire a piedi. Per fortuna lo incontrò un corriere che andava a Bassora, il quale  presolo in groppa lo trasportò fin là. Mentre Nùrad-Dìn Alì cercava in quella città un alloggio, vide venire il visir del sultano di Bassora, accompagnato da un numeroso seguito. Quel ministro, avendo per caso gettato lo sguardo sul giovane viaggiatore, trovatolo di attraente fisionomia, si fermò per domandargli chi fosse e donde venisse. “Signore” rispose Nùr ad-Dìn Alì “sono egiziano nato al Cairo e ho abbandonato la mia patria per un giusto motivo, con la ferma risoluzione di non tornarvi mai più.” “Seguitemi” riprese il visir “venite con me, e forse vi farò dimenticare chi vi ha costretto ad abbandonare il vostro paese.”

Appena il visir ebbe conosciute le belle qualità di Nùr ad-Dìn Alì, gli mostrò affezione e un giorno gli disse: “Figliolo mio, io sono come vedete in un’età molto avanzata, vi voglio bene, ho una figlia che idolatro, la quale è altrettanto bella quanto voi siete ben fatto, la volete? Io sono disposto a darvela. Non avendo bisogno d’altro fuorché di riposo nell’estrema vecchiaia in cui sono, io vi affiderò non solamente l’amministrazione di tutti i miei beni, ma anche quella degli affari dello stato.”

Appena il gran visir di Bassora ebbe finito simile discorso pieno di bontà e di generosità, Nùr ad-Dìn Alì si gettò ai suoi piedi, e con parole che dimostravano gioia e riconoscenza, gli disse che era dispostissimo a fare quanto gli proponeva. Allora il gran visir chiamò i principali ufficiali della sua casa, ordinò loro di fare addobbare la gran sala del suo castello e preparare un gran pranzo. Quindi mandò a pregare tutti i signori della corte e della città, perché volessero darsi la pena di recarsi in casa sua. Quando vi furono tutti radunati, siccome Nùr ad-Dìn lo aveva informato della sua identità egli disse a quei signori, poiché stimò a proposito di parlare così per soddisfare coloro di cui aveva rifiutato il parentado: “Signori, vi renderò nota una cosa fino a questo giorno tenuta segreta. Ho un fratello gran visir del sultano d’Egitto, come ho l’onore di esserlo del sultano di questo regno. Questo fratello ha un solo figlio, che non ha voluto ammogliare alla corte d’Egitto e me l’ha mandato per impalmare mia figlia, per riunire a questo modo i nostri rami. Tale figlio da me riconosciuto al suo arrivo qui per mio nipote, e che io faccio mio genero, è questo giovane che vi presento. Mi lusingo che gli vorrete fare l’onore di assistere alle sue nozze, che ho deciso di celebrare oggi.» Non potendo nessuno di quei signori trovare mal fatto che egli avesse preferito suo nipote a tutti i gran partiti che gli erano stati proposti, risposero che egli aveva ragione di fare simile matrimonio, che volentieri sarebbero testimoni della cerimonia.

Appena i signori radunati in casa del gran visir di Bassora ebbero attestato a quel ministro la gioia che provavano per il matrimonio di sua figlia con Nùr ad-Dìn Alì, tutti si posero a tavola, e vi restarono per molto tempo. Sul finire del pranzo furono recati dei confetti, dei quali ciascuno prese secondo l’usanza quel tanto che poté portar via, poi entrarono i cadì con il contratto di matrimonio alla mano. Lo sottoscrissero i principali sgnori, dopo di che, tutta la compagnia si ritirò. Quando rimase solo la gente di casa, il gran visir incaricò quelli che avevano cura del bagno, di condurvi Nùr ad-Dìn Alì. Allorché lo sposo fu ben lavato, gli venne presentato un abito di grande magnificenza. In questo stato e profumato dei più squisiti odori, egli andò a trovare il gran visir suo suocero, il quale rimase contentissimo del suo bell’aspetto, e avendolo fatto sedere vicino: “Figliolo mio” gli disse “voi mi avete dichiarato chi siete, il grado che avevate alla corte di Egitto, voi mi avete detto pure, che avete avuto una disputa con vostro fratello, e che perciò vi siete allontanato dal vostro pae- se, vi prego farmi noto il soggetto della vostra lite. Ora voi dovete avere in me una perfetta fiducia e nulla nascondermi.” Nùr ad-Dìn Alì raccontò tutte le circostanze del diverbio avuto con suo fratello. Il gran visir non potette ascoltare tale racconto senza ridere. “Ecco” disse “la cosa più singolare del mondo! È dunque possibile, figliolo mio, che la vostra questione sia andata fino al punto che voi dite, per un matrimonio immaginario? Mi dispiace che vi siate disgustato con vostro fratello per una inezia, vedo pertanto che egli ha avuto torto di offendersi di ciò che gli avete detto solo per scherzo, e devo render grazie al cielo di una questione che mi procura un genero qual voi siete. Ma” ag- giunse il vecchio “la notte è già avanzata, ed è tempo di ritirarsi, andate da mia figlia, vostra sposa, che vi attende. Domani vi presenterò al sultano, sperando che egli vi riceverà in modo da restarne entrambi contenti.”

Nùr ad-Dìn Alì lasciò suo suocero per recarsi all’appartamento di sua moglie. Ciò che vi è di notevole – continuò il visir Giàfar – è che nello stesso giorno in cui queste nozze si facevano a Bassora, Muhammad Shams ad-Dìn si ammogliava al Cairo, ed ecco i particolari del suo matrimonio.

Dopo che Nùr ad-Dìn Alì si fu allontanato dal Cairo con l’intenzione di non più ritornarvi, il primogenito che era andato a caccia con il sultano di Egitto, essendo di ritorno a capo di un mese, corse all’appartamento di Nùr ad-Dìn Alì, ma rimase meravigliato nel sentire che sotto pretesto di andare a fare un viaggio di due o tre giornate, egli era partito sopra una mula il giorno stesso della caccia del sultano, e che dopo quel tempo non era più comparso. E tanto più ne fu dispiaciuto, inquantoché non esitò a credere d’avere provocato il suo allontanamento. Egli spedì un corriere il quale passò per Damasco e andò fino ad Aleppo, ma Nùr ad-Dìn era allora a Bassora. Quando il corriere al suo ritorno ebbe riferito che non ne aveva saputo notizia alcuna, Muhammad Shams ad-Dìn si propose di mandarlo a cercare altrove, e intanto prese la risoluzione di ammogliarsi, sposò la figliola di uno dei primi e più potenti signori del Cairo, nello stesso giorno in cui suo fratello si ammogliava con la figlia del gran visir di Bassora. Questo non è tutto – proseguì Giàfar – o principe dei credenti, ecco quello che accadde ancora.

A capo di nove mesi la moglie di Shams ad-Dìn partorì una figlia al Cairo, e nello stesso giorno quella di Nùr ad-Dìn diede alla luce un bel maschio, che fu chiamato Badr ad-Dìn Hassan. Il gran visir di Bassora manifestò la sua gioia con grandi elargizioni e con pubbliche feste per la nascita del suo nipotino. Indi, per dimostrare a suo genero quanto egli era contento di lui, andò al palazzo a supplicare umilissimamente il sultano perché accordasse a Nùr ad-Dìn Alì la successione della sua carica, affinché, disse egli, prima di morire avesse la consolazione di vedere suo genero gran visir in vece sua. Il sultano, il quale aveva veduto Nùr ad-Dìn Alì con molto piacere quando gli era stato presentato dopo il suo matrimonio, e dopo quel tempo ne aveva sempre udito parlare con espressioni di lode, accordò la grazia domandata. Egli lo fece in sua presenza rivestire dell’abito del gran visir. La gioia del suocero l’indomani fu al colmo, quando si vide suo genero presente al consiglio in sua vece a fare le funzioni di gran visir. Nùr ad-Dìn Alì le adempì così bene, che sembrava aver in tutta la vita esercitato quella carica. In seguito continuò ad assistere al consiglio ogni qual volta le infermità della vecchiaia non permisero a suo suocero di trovarvisi. Quel buon vecchio morì quattro anni dopo tale matrimonio, con la soddisfazione di vedere un rampollo della sua famiglia che prometteva di sostenerla splendidamente. Nùr ad-Dìn Alì gli rese gli ultimi uffici con tutta l’amicizia e la riconoscenza possibile, e appena Badr ad-Dìn Hassan suo figlio fu giunto all’età di sette anni, lo pose fra le mani di un maestro eccellente, affinché lo educasse in modo degno della sua nascita.

Due anni dopo, dacché Badr ad-Dìn Hassan era stato messo fra le mani di quel maestro, dopo aver imparato a recitare perfettamente il Corano a memoria, Nùr ad-Dìn Alì suo padre gli diede altri maestri, i quali coltivarono in tal maniera il suo intelletto, che all’età di dodici anni più non aveva bisogno del loro aiuto. Fino a quel punto Nùr ad-Dìn Alì non aveva pensato se non a farlo studiare, e non lo aveva ancora mostrato nel gran mondo. Lo condusse al palazzo per procurargli l’onore di fare riverenza al sultano, il quale lo ricevette molto favorevolmente. Quelli che lo videro per strada furono incantati della sua bellezza e ne fecero delle esclamazioni di meraviglia, dandogli mille benedizioni. Siccome suo padre si proponeva di renderlo capace di occupare un giorno il suo posto, non risparmiò nulla a questo fine, e lo fece entrare nei più difficili affari, al fine di avvezzarvelo di buon’ora.

Insomma, egli non trascurava alcuna cosa per il buon avviamento di un figlio il quale gli era tanto caro, e cominciava già a godere del frutto dei suoi sforzi, quando fu assalito all’improvviso da una malattia, di cui fu tale la violenza, che egli comprese benissimo non essere lontano dalla fine. Però non s’illuse, e si dispose a morire da vero musulmano. In quel momento prezioso non dimenticò suo figlio Badr ad-Dìn, lo fece chiamare e gli disse: “Figliolo mio, voi vedete che il mondo è transitorio, soltanto quello ove passerò ben presto è duraturo, bisogna che voi cominciate fin da ora a prendere le mie stesse disposizioni, preparatevi a fare questo passaggio senza dispiacere e senza che la vostra coscienza possa nulla rimproverarvi sui doveri di un musulmano o su quelli di un perfetto onest’uomo. In quanto alla vostra religione, voi ne siete a sufficienza istruito da quello che vi hanno insegnato i vostri maestri, in quanto all’onestà, io voglio darvi alcuni ammaestramenti che cercherete di mettere a profitto. Siccome è necessario conoscere sé stesso, e voi non potete avere perfettamente questa conoscenza se non sapete chi sono io, voglio farvelo noto. Io sono nato in Egitto” proseguì “mio padre, vostro nonno, era primo ministro del sultano del regno. Io stesso ho avuto l’onore di essere uno dei visir dello stesso sultano con un mio fratello vostro zio, il quale, credo, viva ancora e si chiama Muhammad Shams ad-Dìn. Fui obbligato a separarmi da lui e venni in questo paese, dove sono giunto al grado che ho tenuto fino al presente. Ma voi conoscerete più ampiamente tutte queste cose che ho scritto su questo quaderno.”

Nùr ad-Dìn Alì gli diede il quaderno scritto di suo pugno. “Prendete” gli disse “lo leggerete a vostro agio, vi troverete fra le altre cose il giorno del mio matrimonio e quello della vostra nascita.” Badr ad-Dìn Hassan, sensibilmente afflitto di veder suo padre nello stato in cui era, mosso dai suoi discorsi, ricevette piangendo il quaderno, promettendogli di non disfarsene mai. In quel punto Nùr ad-Dìn Alì fu preso da un deliquio, ma rinvenne in sé e ripigliando la parola: “Figliolo mio” disse “la prima massima che ho da insegnarvi è di non abbandonarvi alla pratica di ogni sorta di persone. Il mezzo di vivere tranquillo è di darsi interamente a sé stesso e di non palesare i propri pensieri con facilità. La seconda è di non far violenza a chiunque, poiché in tal caso tutti si rivolterebbero contro di voi, e voi dovete riguardare il mondo come un creditore, a cui siete debitore di moderazione, di compassione e di tolleranza. “La terza di non dire neppure una parola quando alcuno vi colmi d’ingiuria. Si è fuori di pericolo, dice il proverbio, quando si serba il silenzio. Ora è specialmente in questa occasione che voi dovete praticarlo. Saprete pure a questo proposito avere uno dei nostri poeti detto essere il silenzio l’ornamento e la salvaguardia della vita: Uno non si è mai pentito di aver taciuto, ma spesso di aver parlato. La quarta di non bere vino, poiché è la sorgente di tutti i vizi. La quinta di ben governare i vostri beni, se non li dissipate, vi serviranno a preservarvi dalla necessità, ciò nondimeno non bisogna averne di troppo, né essere avaro.” In fine Nùr ad-Dìn Alì continuò sino all’ultimo momento a dare buoni consigli a suo figlio, e quando fu morto gli si fecero magnifiche esequie.

Il califfo non si annoiava di ascoltare il gran visir Giàfar, che continuò così la sua storia.

Seppellì dunque – disse egli – Nùr ad-Dìn Alì con tutti gli onori dovuti alla sua dignità. Badr ad-Dìn Hassan di Bassora (così fu soprannominato, perché era nato in quella città), ebbe un inconcepibile dolore della morte di suo padre. Invece di passare un mese, secondo il costume, egli ne passò due in lacrime, senza vedere alcuno, e senza neppure uscire per rendere i suoi doveri al sultano di Bassora, il quale, sdegnato di questa negligenza, e considerandola come segno di disprezzo per la sua corte e per la sua persona, si lasciò trasportare dall’ira. Nel suo furore fece chiamare il nuovo gran visir, (poiché ne aveva fatto uno appena saputa la morte di Nùr ad-Dìn Alì) e gli ordinò di recarsi alla casa del defunto e di confiscarla con tutte le altre sue case, terre e beni, senza lasciare nulla a Badr ad-Dìn Hassan, del quale comandò pure che s’impadronissero. Il nuovo gran visir, accompagnato da un gran numero di genti di giustizia e di altri ufficiali, non indugiò a mettersi in cammino per andare ad eseguire il suo ordine.

Uno degli schiavi di Badr ad-Dìn Hassan, che era per caso fra la folla, appena ebbe saputo il disegno del visir, corse a renderne consapevole il suo padrone. Lo trovò seduto nel vestibolo di casa, tanto afflitto come se suo padre fosse morto allora, si gettò ai suoi piedi tutto anelante, e dopo avergli baciato il lembo della veste: “Salvatevi, signore” gli disse “salvatevi prontamente.” “Che c’è?” gli domandò Badr ad-Dìn alzando la testa “che notizia mi rechi?” “Signore” rispose “non c’è tempo da perdere. Il sultano è terribilmente in collera contro di voi e vengono da parte sua a confiscare ciò che voi possedete e anche a impadronirsi della vostra persona.”

Il discorso di questo schiavo fedele e affezionato pose lo spirito di Badr ad-Dìn Hassan in grande perplessità. “Ma potrò” disse egli “aver il tempo di rientrare in casa e prendere almeno un po’ di denaro e qualche pietra preziosa?” “No, signore” replicò lo schiavo “il gran visir sarà qui all’istante. Partite subito, salvatevi!” Badr ad-Dìn Hassan si levò dal sofà dove era, pose i piedi nelle pantofole e dopo essersi coperta la testa con un lembo della sua veste per nascondersi il viso, se ne fuggì senza sapere da quale lato volgere i suoi passi, per evitare il pericolo che lo minacciava. Il primo pensiero che gli venne fu di correre in fretta per giungere alla porta più vicina della città. Corse senza fermarsi fino al pubblico cimitero, e siccome la notte si avvicinava, risolvette di andarla a passare nella tomba di suo padre. Era un edificio di grande apparenza, in forma di cupola, che Nùr ad- Dìn Alì aveva fatto fabbricare mentre era ancor vivo, ma egli incontrò per via un ebreo ricchissimo, banchiere e mercante di professione. Tornava in città da un porto in cui qualche affare lo aveva chiamato. Questo ebreo, riconosciuto Badr ad-Dìn, si fermò e lo salutò molto rispettosamente. Egli si chiamava Isacco e, dopo aver salutato Badr ad-Dìn Hassan e avergli baciato la mano, gli disse: “Signore, oserò io prendermi la libertà di domandarvi dove andate a quest’ora, solo a quanto pare, e un poco agitato? Vi è cosa che vi ponga in affanno?” “Sì” rispose Badr-ad-Dìn “mi sono poc’anzi addormentato e nel mio sonno mi è apparso mio padre. Aveva lo sguardo terribile, come se fosse stato irritato contro di me. Mi sono riscosso dal sonno all’improvviso, e, pieno di spavento, sono partito per venire a far la mia preghiera sulla sua tomba.” “Signore” ripigliò l’ebreo, il quale non poteva sapere perché Badr ad- Dìn Hassan fosse uscito dalla città “siccome il gran visir vostro padre aveva caricato di mercanzie parecchi vascelli tuttora in mare e che vi appartengono, vi supplico di accordarmi la preferenza su di ogni altro mercante. Io sono in condizione di comprare a denaro contante il carico di tutti i vostri vascelli, e per incominciare, se vi piace cedermi quello del primo che giungerà a buon porto, io vi conterò al momento mille dinàr. Io li ho qui in una borsa, e sono pronto a darveli anticipatamente.” Ciò dicendo trasse una grossa borsa che egli aveva sotto il braccio coperto dalla sua veste e gliela mostrò suggellata del suo suggello. Badr ad-Dìn Hassan, nello stato in cui era, cacciato di casa sua e spogliato di quanto aveva al mondo, considerò la proposta dell’ebreo come un favore del cielo. Non esitò ad accettarla con gioia. “Signore” gli disse allora l’ebreo “voi dunque mi date per mille dinàr il carico del primo dei vostri vascelli che arriverà in questo porto?” “Sì, ve lo vendo per mille dinàr” rispose Badr ad-Dìn Hassan “ed è cosa fatta.” L’ebreo gli pose nelle mani la borsa di mille dinàr, offrendosi di contarli, ma Badr ad-Dìn gliene risparmiò la pena, dicendogli che si fidava della sua parola. “Quand’è così” ripigliò l’ebreo “abbiate la bontà, signore, di farmi una riga di scritto del contratto che ora abbiamo fatto.”

Ciò dicendo, trasse il suo calamaio, che portava alla cintura, e dopo aver preso una piccola canna ben temperata per scrivere, gliela presentò con un pezzetto di carta, e mentre teneva in mano il calamaio, Badr ad- Dìn Hassan scrisse queste parole:

Questo scritto è per render testimonianza che Badr ad-Dìn Hassan di Bassora ha venduto all’ebreo Isacco, per la somma di mille dinàr, già ricevuti, il carico del primo dei suoi navigli che approderà in questo porto.

Dopo aver fatto questo, lo diede all’ebreo il quale lo pose nel suo portafogli e prese in seguito da lui commiato. Mentre Isacco proseguiva il suo cammino verso la città, Badr ad-Dìn Hassan continuò il suo, verso la tomba di suo padre. Nel giungervi, si prosternò bocconi, e con gli occhi bagnati di lacrime si pose a deplorare la sua miseria. “Ohimè” diceva “povero Badr ad-Dìn, che sarà mai di te? Dove andrai a cercare un asilo contro l’ingiusto principe che ti perseguita? Non bastava di essere afflitto per la morte di un padre tanto amato?” Restò lungo tempo in tale stato, ma finalmente si levò, e avendo appoggiato la testa sul sepolcro di suo padre, i suoi dolori si rinnovarono con maggior violenza di prima, e non cessò di sospirare e di piangere fino a che, soccombendo al sonno, levò la testa di sopra il sepolcro e si stese quanto era lungo sul lastricato, dove si addormentò. Gustava appena la dolcezza del riposo, quando un genio il quale aveva stabilito la sua dimora in quel cimitero durante il giorno, disponendosi a correre il mondo in quella notte secondo il suo costume, scorse quel giovane nella tomba di Nùr ad-Dìn Alì. Egli vi entrò, e siccome Badr ad-Dìn era coricato supino, rimase meravigliato e abbagliato dallo splendore della sua bellezza!

Quando il genio – ripigliò il gran visir Giàfar – ebbe attentamente considerato Badr ad-Dìn Hassan, disse dentro di sé: ‘ A giudicare questa creatura dal suo bell’aspetto, non può essere se non un angelo del paradiso terrestre, che Dio manda per mettere il mondo in combustione con la sua bellezza. ‘

Finalmente, dopo averlo ben riguardato, si alzò molto alto nell’aria, dove per caso incontrò una fata. Si salutarono l’un l’altra, e quindi egli le disse: “Vi prego di scendere con me fino al cimitero dove io dimoro, e vi farò vedere un prodigio di beltà.” La fata acconsentì. Essi discesero in un istante, e quando furono nella tomba, il genio disse alla fata, mostrandole Badr ad-Dìn Hassan: “Ebbene, avete mai visto un giovane più bello di questo?” La fata esaminò Badr ad-Dìn con attenzione, e poi volgendosi verso il genio, rispose: “Vi confesso che egli è molto ben fatto, ma ho visto al Cairo un oggetto ancor più meraviglioso intorno al quale vi dirò alcunché, se volete ascoltarmi.” “Mi farete un grandissimo piacere” replicò il genio. “Bisogna dunque che sappiate” riprese la fata “che il sultano d’Egitto ha un visir chiamato Muhammad Shams ad-Dìn, il quale ha una figlia dell’età di circa venti anni. Ella è la più bella e la più perfetta persona di cui si sia mai udito parlare. Il sultano, informato dalla voce pubblica della bellezza di questa giovinetta, fece chiamare il visir suo padre in uno di questi ultimi giorni, e gli disse: «Ho saputo che avete una figlia da maritare, desidero di sposarla, volete accordarmela?». Il visir, che non si aspettava una simile proposta, ne fu turbato un poco, ma non fu abbagliato, e invece di accettarla con gioia (il che altri al suo posto non avrebbe mancato di fare) rispose al sultano: «Sire, io non sono degno dell’onore che vostra maestà vuol impartirmi e la supplico umilissimamente di non prendere in mala parte se io mi oppongo al suo disegno. Voi sapete che io avevo un fratello chiamato Nùr ad-Dìn Alì, che aveva come me l’onore di essere uno dei vostri visir. Avemmo insieme una disputa, in seguito alla quale egli sparì all’improvviso, se non che ho saputo, quattro giorni fa, che egli è morto a Bassora nella dignità di gran visir del sultano di quel regno. Egli ha lasciato un figlio, e siccome tempo fa ci promettemmo a vicenda di sposare insieme i nostri figli, supposto che ne avessimo, sono persuaso che egli è morto nell’intenzione di fare questo matrimonio. Perciò dal canto mio vorrei adempire la mia promessa e scongiuro vostra maestà di permetterlo. Vi sono in questa corte molti altri signori che hanno figlie che voi potete onorare della vostra parentela.». Il sultano d’Egitto s’irritò a morte contro Muhammad Shams ad-Dìn, e siccome rimase fortemente punto dal rifiuto e dall’ardire di quello, così gli disse con un trasporto d’ira: «Dunque così rispondete alla bontà che ho di volermi abbassare fino ad imparentarmi con voi? Saprò vendicarmi della preferenza che su di me osate dare a un altro, e giuro che vostra figlia non avrà altro marito fuor ché il più vile e il più deforme di tutti i miei schiavi.». Terminando queste parole, rimandò bruscamente il visir, il quale si ritirò in casa pieno di confusione e crudelmente mortificato.

Oggi il sultano ha fatto venire uno dei suoi palafrenieri, gobbo dinanzi e di dietro e brutto da far paura, e dopo avere ordinato a Muhammad Shams ad-Dìn di acconsentire al matrimonio di sua figlia con questo orribile schiavo, ha fatto stendere e sottoscrivere il contratto da testimoni in sua presenza, i preparativi di queste nozze bizzarre sono finiti, e nel momento in cui vi sto parlando tutti gli schiavi dei signor della corte di Egitto stanno alla porta di un bagno, ciascuno con una fiaccola in mano. Essi aspettano il gobbo palafreniere, per condurlo dalla sua sposa, la quale dal canto suo è già pettinata e abbigliata. Nel momento in cui sono partita dal Cairo, le dame adunate si disponevano a condurla, con tutti i suoi ornamenti nuziali, nella sala in cui deve ricevere il gobbo. Io l’ho veduta e vi assicuro che non si può guardarla senza meraviglia.”

Quando la fata ebbe cessato di parlare, il genio le disse: “Checché possiate dire, io non posso persuadermi che la beltà di quella giovane sorpassi quella di questo giovane.” “Non voglio con voi disputare” replicò la fata “confesso che egli meriterebbe di sposare la fanciulla destinata al gobbo, e mi sembra che faremmo un’azione degna di noi se, opponendoci all’ingiustizia del sultano d’Egitto, potessimo sostituire questo giovane in luogo dello schiavo.” “Avete ragione” replicò il genio “voi non potreste credere quanto io sia d’accordo con ciò che avete detto, impediamo la vendetta del sultano d’Egitto, consoliamo un padre afflitto e rendiamo sua figlia tanto felice quanto ella si crede miserabile, nulla trascurerò per far riuscire questo disegno, e sono persuaso che voi non starete con le mani alla cintola, io m incarico di condurlo al Cairo senza svegliarlo, lasciando la cura a voi d portarlo altrove, quando avremo eseguito la nostra impresa.”

Dopo aver la fata e il genio insieme concertato quanto volevano fare il genio portò via dolcemente Badr ad-Dìn, e trasportandolo per aria con una inconcepibile velocità, andò a posarlo alla porta di un albergo pubblico, e prossimo al bagno da cui il gobbo era in procinto di uscire con il seguito degli schiavi che attendevano. Quando il giovane si svegliò, fu molto sorpreso di vedersi in mezzo a una città a lui ignota, volle gridare per domandare dove era, ma il genio gli dette un colpetto sulla spalla avvertendolo di non dir parola alcuna. Poi, mettendogli una fiaccola in mano gli disse: “Andate, mischiatevi fra la gente che vedete alla porta di quel bagno, e camminate con loro fino a che non siete entrato in una sala dove si stanno per celebrare delle nozze. Il novello sposo è un gobbo, che riconoscerete facilmente. Mettetevi alla sua destra nell’entrare, e fin d’ora aprite la vostra borsa dei dinàr e distribuiteli ai suonatori, ai ballerini e alle danzatrici per via. Quando sarete nella sala non tralasciate di darne anche alle schiave che vedrete intorno alla sposa, ogni qualvolta metterete la mano nella borsa, cavatela piena di monete, e non risparmiatele. Fate esattamente quanto vi dico e non meravigliatevi di nulla, non temete alcuno, fidatevi del resto di una potenza superiore, la quale di tutto dispone a suo talento.”

Il giovane Badr ad-Dìn, istruito di quanto doveva fare, avanzò verso la porta del bagno, e accese la fiaccola a quella di uno schiavo e mischiandosi con gli altri, come se appartenesse a qualche signora del Cairo, si incamminò con loro. Badr ad-Dìn Hassan, trovandosi presso ai suonatori, ballerini e ballerine, che camminavano immediatamente innanzi al gobbo, cavava di tempo in tempo dalla sua borsa delle manate di dinàr che distribuiva loro. Siccome egli faceva le sue larghezze con una grazia tutta particolare e con un’aria molto obbligante, coloro i quali le ricevevano gli fissavano gli occhi addosso, e appena osservatolo, lo trovavano così ben fatto e bello, da non poter più levargli gli occhi dalla persona.

Si giunse alla fine alla porta del visir zio di Badr ad-Dìn Hassan, il quale era ben lungi dall’immaginarsi di avere suo nipote lì vicino a lui. Degli uscieri, per impedire la confusione, fermarono tutti gli schiavi che portavano delle fiaccole, e non vollero lasciarli entrare. Respinsero anche Badr ad-Dìn Hassan, ma i suonatori, per i quali era libero l’ingresso, si arrestarono protestando che non sarebbero entrati, se non lo avessero lasciato entrare con loro. “Egli non è del numero degli schiavi” dicevano “basta guardarlo, per convincersene. È senza dubbio un giovane straniero il quale vuol vedere le cerimonie che si osservano nelle nozze in questa città.” Ciò dicendo, se lo posero in mezzo e lo fecero entrare, malgrado il divieto degli uscieri. Gli levarono la sua fiaccola, e dopo averlo introdotto nella sala, lo collocarono a destra del gobbo, il quale si assise presso la figlia del visir, su di un trono magnificamente ornato.

La sposa era parata di tutti i suoi ornamenti, ma sul suo volto si scorgeva un languore o piuttosto una tristezza mortale di cui non era difficile indovinare la causa, vedendo a lei vicino un marito così deforme e indegno del suo amore. Il trono di quegli sposi così male assortiti era in mezzo un sofà. Le mogli degli emiri, dei visir, degli ufficiali della camera del sultano, e parecchie altre dame della corte e della città, erano sedute da ciascun lato un po’ più basso, ognuna secondo il suo grado, e tutte vestite in modo ricco e brillante. Quando videro entrare Badr ad-Dìn Hassan gettarono gli sguardi su di lui, ammirando la sua statura, il suo aspetto e la beltà del suo volto. Quando fu seduto, non ve ne fu neppur una che non abbandonasse il suo posto per appressarglisi e considerarlo più da vicino, né ve ne fu alcuna che nel ritirarsi per riprendere il suo posto, non si sentisse agitata da una tenera commozione. La diversità tra Badr ad-Dìn Hassan e il palafreniere gobbo, la cui figura metteva orrore, eccitò dei mormorii nell’adunanza. “A questo bel giovane” esclamarono le dame “bisogna dare la nostra sposa e non a codesto gobbo deforme!” Né qui si fermarono, osarono lanciare delle imprecazioni contro il sultano, il quale abusando del suo potere assoluto univa la bruttezza alla beltà, colmarono anche di ingiurie il gobbo, e fecero sì che egli si trovasse molto confuso, con sommo piacere degli astanti, le cui fischiate interruppero per qualche tempo la sinfonia della sala. Finalmente i suonatori ricominciarono i loro concerti, e le donne che avevano vestito la sposa le si avvicinarono. Ogni volta che la sposa novella cambiava d’abito, ella si alzava dal suo posto, e seguita dalle sue donne passava innanzi al gobbo senza degnarsi di guardarlo, e andava a presentarsi innanzi a Badr ad-Dìn Hassan, per mostrarsi a lui nei suoi ornamenti.

Allora Badr ad-Dìn Hassan, seguendo l’istruzione ricevuta dal genio, non tralasciava di metter la mano nella sua borsa e trarne manciate di dinàr, distribuendoli alle donne che accompagnavano la sposa. Non dimenticava né suonatori, né ballerini e anche a essi ne gettava. Era piacevole a vedersi come si spingevano l’un l’altro per raccogliere, essi gliene attestavano gratitudine e gli mostravano con i cenni il loro desiderio che la giovane sposa appartenesse a lui, e non già al gobbo. Le donne che erano intorno a lei le dicevano lo stesso, né si curavano di essere udite dal gobbo, al quale facevano mille beffe. Finita la cerimonia dei cambiamenti d’abito, i suonatori cessarono di suonare e si ritirarono, facendo segno a Badr ad-Dìn Hassan di restare. Le dame fecero lo stesso, ritirandosi dopo di loro con tutti quelli che non erano di casa. La sposa entrò in una stanza ove le sue donne la seguirono per spogliarla, e non restò più nella sala se non il gobbo palafreniere, Badr ad-Dìn Hassan e alcuni domestici. Il gobbo, che odiava terribilmente Badr ad-Dìn, lo guardò bieco e gli disse: “E tu, che aspetti? Perché non ti ritiri come gli altri? Va’ via!”

Siccome Badr ad-Dìn non aveva alcun pretesto per rimanersene là, se ne uscì molto imbarazzato, ma appena fu giunto fuori del vestibolo, si presentarono a lui il genio e la fata fermandolo: “Dove andate?” gli disse il genio “restate, il gobbo non è più nella sala, egli ne è uscito per qualche bisogno, avete solo da rientrare là e introdurvi nella camera della sposa. Quando sarete solo con lei, ditele arditamente che siete voi suo marito, poiché l’intenzione del sultano è stata solo quella di divertirsi con il gobbo, per appagare codesto preteso marito voi gli avete fatto apprestare un buon piatto di crema nella sua scuderia. Ditele insomma su questo argomento quanto vi verrà in mente per persuaderla, ed ella sarà contentissima di essere stata così piacevolmente ingannata. Intanto noi andiamo a dar ordine perché il gobbo non rientri, e non vi impedisca di rimanere con la vostra sposa, poiché ella è vostra e non del gobbo.”

Mentre il genio incoraggiava in questo modo Badr ad-Dìn e l’istruiva intorno al da farsi, il gobbo era veramente uscito dalla sala. Il genio si introdusse dove egli stava, prese le sembianze di un grosso gatto nero, e si pose a miagolare in modo spaventevole. Il gobbo gridò dietro al gatto e batté con le mani per farlo fuggire, ma il gatto invece di ritirarsi, si tenne duro sulle zampe, fece brillare degli occhi di brace e guardò ferocemente il gobbo miagolando più forte di prima e facendosi grande in modo da sembrare grosso come un asinello. Il gobbo a tal vista volle gridare al soccorso, ma lo spavento si era talmente impadronito di lui, che rimase a bocca aperta senza poter proferire parola. Per non dargli requie alcuna, il genio si cambiò all’istante in un possente bufalo, e sotto questa forma gli gridò con voce tonante: “Gobbo villano!” A queste parole lo spaventato palafreniere si lasciò cadere sul pavimento e, coprendosi la testa con la sua veste per non vedere quella bestia spaventevole, gli rispose tremando: “Principe supremo dei bufali, che chiedete da me?” “Guai a te” gli rispose il genio “se tu hai la temerità di ammogliarti con la mia fidanzata!” “Ah! signore” disse il gobbo “vi supplico di perdonarmi, io non sapevo che questa dama avesse un bufalo per amante. Comandatemi, io sono pronto a obbedirvi.” “Per la morte!” replicò il genio “se tu esci di qui, e se non osservi il silenzio fino a che sorga il sole, io ti schiaccio la testa. Fatto giorno, ti permetto di uscire da questa casa, ma ti ordino di ritirarti prestissimo, senza guardarti dietro, e se hai l’ardire di ritornarci, ne andrà della tua vita.” Terminando queste parole, il genio si trasformò in uomo, prese il gobbo per i piedi, e dopo averlo alzato con la testa in giù contro il muro, soggiunse: “Se tu ti muovi prima dello spuntare del sole, come ti ho già detto, ti frantumerò il capo in mille pezzi contro questo muro!”

Quanto a Badr ad-Dìn Hassan, incoraggiato dal genio e dalla presenza della fata, era ritornato nella sala e si era insinuato nella camera nuziale, dove si sedette attendendo l’esito della sua avventura. A capo di qualche tempo giunse la sposa, condotta da una buona vecchia, la quale si fermò alla porta, quindi chiuse e si ritirò. La giovane sposa fu estremamente sorpresa di vedere in luogo del gobbo, Badr ad-Dìn Hassan, che si presentò ad essa con la miglior grazia del mondo. “E che! mio caro amico” gli disse “voi siete qui a quest’ora? Siete dunque conoscente di mio marito?” “No, signora” riprese Badr ad-Dìn “io sono di diversa condizione da quella di codesto gobbo villano.” Ma ella riprese: “Voi non badate che dite male del mio sposo?” “Egli, o signora” soggiunse “vostro sposo? E potete rimanere così lungo tempo in tal pensiero? Uscite d’inganno. Tante bellezze non saranno sacrificate al più spregevole di tutti gli uomini. Sono io, signora, sono io il più felice mortale a cui sono riservate. Il sultano ha voluto divertirsi facendo questa soverchieria al visir vostro padre, ed egli mi ha scelto per vostro sposo. Voi avete potuto osservare quanto le dame, i ballerini, le vostre donne e tutta la gente di casa hanno goduto di questa commedia. Noi abbiamo mandato via l’infelice gobbo, che a quest’ora mangia un piatto di crema nella sua scuderia alla salute dei vostri begli occhi.” A questo discorso la figlia del visir la quale era entrata più morta che viva nella camera nuziale, si trasformò in volto, prese un aspetto così gaio da farne rimanere incantato Badr ad-Dìn. “Non mi aspettavo” gli disse “una così grata sorpresa, e già mi ero rassegnata ad essere infelice per il resto della mia vita. Ma io sono tanto più felice, poiché avrò un uomo degno della mia tenerezza.” Ciò dicendo, ella finì di spogliarsi e si pose a letto. Dal canto suo Badr ad-Dìn Hassan, fuor di sé per vedersi possessore di tali incantevoli bellezze, si spogliò prontamente. Pose il suo abito su di un seggio, si tolse il turbante, per mettersene uno da notte, che era stato preparato per il gobbo, e andò a coricarsi in camicia e in mutande. Le mutande erano di raso azzurro e legate con un cordone tessuto di oro.

- Fiaberella
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