La fiaba di Nùr ad-Dìn Alì e di Badr ad-Dìn Hassan- Parte II

Quando i due amanti si furono addormentati, il genio che aveva raggiunto la fata, le disse che era tempo di finire ciò che essi avevano così ben cominciato. “Non lasciamoci sorprendere» soggiunse “dal giorno che apparirà presto, andate e portate via il giovane senza svegliarlo.” La fata si recò nella camera degli amanti che dormivano profondamente, portò via Badr ad-Dìn Hassan nello stato in cui era, cioè in camicia e in mutande, e volando con il genio con meravigliosa rapidità fino alla porta di Damasco in Siria vi giunsero precisamente nel tempo in cui i ministri delle moschee, chiamavano il popolo alla preghiera dello spuntar del giorno. La fata posò dolcemente a terra Badrad-Dìn, e lasciandolo presso alla porta, s’allontanò insieme con il genio. Si aprirono le porte della città, e la gente fu estremamente sorpresa di vedere Badr ad-Dìn Hassan steso per terra in camicia e in mutande, l’uno diceva: “Egli è stato talmente costretto di uscire presto dalla casa della sua amante, che non ha neppure avuto il tempo di vestirsi.” “Vedete un po’” diceva un altro “a quali accidenti siamo esposti! Egli avrà passato una buona parte della notte a bere con i suoi amici, si sarà ubriacato, sarà poi uscito per qualche occorrenza, e invece di ritirarsi sarà venuto fin qui senza sapere ciò che facesse, e l’avrà preso il sonno.” Altri dicevano altre cose, e nessuno poteva indovinare per quale avventura egli si trovasse solo. La brezza mattutina gli aprì la camicia e lasciò vedere il suo petto più bianco della neve. Furono tutti talmente stupiti di tale bianchezza, che posero un grido di meraviglia, che svegliò il giovane. Non fu meno grande della loro la sua sorpresa nel vedersi alla porta di una città dove non era mai venuto, e circondato da una calca di gente che lo considerava con attenzione. “Signori” disse loro “ditemi dove sono e che desiderate da me?” Uno fra essi prese la parola e gli rispose: “Giovane, or ora si è aperta la porta di questa città, e nell’uscire vi abbiamo trovato qui coricato nello stato in cui siete. Ci siamo fermati a guardarvi. Avete dunque passato qui la notte? Non sapete di trovarvi a una delle porte di Damasco?” “A una delle porte di Damasco!” replicò Badr ad-Dìn “voi vi burlate di me. Questa notte nel coricarmi io stavo al Cairo.” A queste parole alcuni, mossi a compassione, dissero essere un peccato che un giovane tanto bello avesse perduto la ragione, e passarono oltre. “Figliolo mio” gli disse un buon vecchio “voi non riflettete, se state questa mattina a Damasco, come potevate stare ieri sera al Cairo? Questo non può essere.” “Eppure è verissimo” soggiunse Badr ad-Dìn “e vi giuro ancora di aver passato la giornata di ieri a Bassora.” Appena ebbe terminato queste parole, tutti scoppiarono dalle risa, esclamando: “È pazzo! È pazzo!” Tuttavia alcuni lo compativano a motivo della sua giovinezza, e un uomo di quella compagnia gli disse: “Figliolo mio, voi non pensate a quel che dite. È mai possibile che un uomo sia il giorno a Bassora, la notte al Cairo e la mattina a Damasco? Voi certo non siete bene svegliato, richiamate i vostri sensi.” “Ciò che io dico” riprese Badr ad-Dìn Hassan “è tanto vero, che ieri sono stato ammogliato nella città del Cairo.” A questo discorso tutti coloro i quali avevano riso, raddoppiarono la loro allegria. “Badate bene” soggiunse la stessa persona «voi dovete aver sognato quanto dite.” “Ditemi voi, invece, com’è possibile che io sia andato in sogno al Cairo, dove per sette volte hanno condotto innanzi a me la mia sposa adorna di un nuovo abbigliamento, e dove infine ho veduto un orrido gobbo che le si pretendeva dare? Ditemi quel che avvenne della mia veste, del mio turbante e della mia borsa di dinàr?”

Benché assicurasse essere tutte queste cose reali, le persone che l’ascoltavano non fecero altro che riderne, il che lo turbò in tal modo, da non sapere più ciò che pensare di quanto gli era accaduto. Dopo che Badr ad-Dìn Hassan si fu ostinato a sostenere che tutto ciò che egli aveva detto era vero, si alzò per entrare nella città, e tutta la gente lo seguiva gridando: “È un pazzo!” A tali grida, gli uni sporsero il capo dalle finestre, gli altri si presentarono sulle loro porte, e altri, unendosi a quelli che attorniavano Badr ad-Dìn, gridavano come essi, senza sapere di che si trattasse: “È un pazzo!” Nell’impaccio in cui si trovava quel giovane, giunse innanzi alla casa di un pasticcere, il quale apriva allora la bottega e vi entrò dentro per togliersi alle fischiate del popolo. Quel pasticcere era stato un tempo capo di una truppa di vagabondi che assalivano le carovane, e sebbene fosse venuto a stabilirsi a Damasco, dove non dava alcun motivo di lagnanza contro di sé, era ancora temuto da quanti lo conoscevano. Per la qual cosa appena ebbe lanciato uno sguardo sulla marmaglia che seguiva Badr ad-Dìn, egli la disperse. Poi rivolse parecchie domande al giovane, volle sapere chi fosse e il motivo che l’aveva condotto a Damasco. Badr ad-Dìn Hassan non gli nascose né la nascita, né la morte del gran visir suo padre. Gli narrò in seguito in quale modo era uscito di Bassora, e come, dopo essersi addormentato la notte precedente sulla tomba di suo padre, si era trovato, svegliandosi, al Cairo, dove aveva sposato una splendida dama. Infine gli manifestò la sorpresa in cui era di vedersi a Damasco senza poterne comprendere un bel nulla.

“La vostra storia è delle più sorprendenti” gli disse il pasticcere “ma se volete seguire il mio consiglio, non confiderete ad alcuno le cose dette a me, attendendo pazientemente che il cielo si degni porre fine alle disgrazie delle quali siete afflitto. Vi contenterete di rimanere con me fino a tal momento, siccome non ho figlioli, sono pronto a riconoscervi per mio figlio, se acconsentite. Dopo che vi avrò adottato, andrete liberamente per la città, e non sarete più esposto agli insulti della marmaglia.” Quantunque questa adozione non facesse onore al figlio di un gran visir, Badr ad-Dìn non rifiutò di accettare la proposta del pasticcere, stimando che quello fosse il miglior partito da prendere nello stato in cui si trovava. Il pasticcere lo fece vestire, prese dei testimoni, e andò a dichiarare innanzi a un cadì che lo riconosceva per suo figlio, in seguito di che Badr ad-Dìn restò in casa sua sotto il semplice nome di Hassan, e apprese l’arte del pasticcere.

Mentre ciò avveniva a Damasco, la figlia di Shams ad-Dìn si risvegliò e non trovando Badr ad-Dìn accanto a lei, credette che egli si fosse alzato senza volere interrompere il suo riposo. Ella attendeva il suo ritorno, allorché il visir Shams ad-Dìn suo padre, punto sul vivo dell’affronto che credeva aver ricevuto dal sultano d’Egitto, venne a bussare all’appartamento di lei, per piangere con essa il suo tristo destino. La chiamò per nome, ed ella, appena ebbe inteso la sua voce, si levò per aprirgli la porta. Gli baciò la mano, e lo ricevette con un’aria tanto contenta, che il visir, il quale si aspettava di trovarla bagnata di lacrime e afflitta come lui, ne rimase estremamente sorpreso. “Sciagurata!” le disse adirato “così dunque mi compari dinanzi? Dopo l’orribile sacrifizio consumato, puoi tu presentarmi un volto così gaio?” “Signore, di grazia, non mi fate un così ingiusto rimprovero, non è il gobbo che io detesto più della morte, non è già quel mostro che ho sposato, tutti lo hanno messo in tanta confusione che egli è stato costretto andarsi a nascondere e a dar luogo a un giovane bellissimo che è il mio vero marito.” “Che favola mi raccontate?” interruppe bruscamente Shams ad-Dìn. “Che! Il gobbo non è con voi?” “No, signore” ella rispose “non ho veduto altra persona se non il giovane di cui vi parlo, il quale ha dei grandi occhi e delle sopracciglia nere.” A queste parole il visir perdette la pazienza, e montò in grandissima furia contro sua figlia. “Ah! cattiva” le disse “volete farmi perdere la testa con i vostri discorsi!” “Siete voi, padre mio, che fate perdere la testa a me con la vostra incredulità.” “Non è vero” replicò il visir “che il gobbo vi ha…” “Eh! lasciamo il gobbo” interruppe bruscamente “sempre il maledetto gobbo! Ve lo ripeto, padre mio” aggiunse “non ho più visto il gobbo, ma solo il caro sposo di cui vi parlo, e che non deve essere lontano di qui.”

Shams ad-Dìn uscì per andarlo a cercare, ma invece di trovarlo rimase estremamente sorpreso di incontrare il gobbo che aveva la testa in giù e i piedi in alto, nella stessa situazione in cui l’aveva messo il genio. “Che vuol dire ciò?” gli disse “chi vi ha messo in tale stato?” Il gobbo, riconoscendo il visir, gli rispose: “Ah ah! siete voi dunque che volevate darmi in matrimonio l’amante di un bufalo, l’amante di un genio villano? Io non sarò il vostro merlotto, e voi non mi ci coglierete!” Shams ad-Dìn credette che il gobbo farneticasse, perciò gli disse: “Levatevi di lì, e mettetevi sui vostri piedi.” “Me ne guarderò bene” soggiunse il gobbo. “Sappiate che essendo venuto qui ieri sera, apparve all’improvviso innanzi a me un gatto nero, il quale si trasformò in un grosso bufalo, non ho già dimenticato quel che mi ha detto, perciò andate per i fatti vostri e lasciatemi qui.” Il visir, invece di ritirarsi, prese il gobbo per i piedi e l’obbligò a rialzarsi. Ciò fatto, il gobbo uscì correndo di tutta lena senza guardarsi dietro. Si recò al palazzo, si fece presentare al sultano d’Egitto e lo divertì moltissimo, raccontandogli il trattamento fattogli dal genio. Shams ad-Dìn ritornò nella camera di sua figlia più stupito e più incerto di prima. “Ebbene, figlia” le disse “potete voi chiarirmi un’avventura che mi rende interdetto e confuso?” “Signore” gli rispose “non posso dirvi altro, fuorché quello che ho già riferito. Ma ecco” aggiunse “il vestito del mio sposo, esso forse vi darà gli schiarimenti che cercate.” Dicendo queste parole, presentò il turbante di Badr ad-Dìn al visir, il quale lo prese, e dopo averlo ben bene esaminato da tutte le parti: “Lo prenderei” disse “per un turbante di visir, se non fosse alla foggia di Mussul.” Ma accorgendosi che vi era qualche cosa cucito tra la stoffa e la fodera, chiese delle forbici, e avendo scucito, trovò una carta piegata. Era il quaderno dato da Nùr ad-Dìn Alì morente a Badr ad-Dìn suo figliolo, il quale lo aveva nascosto in quel luogo, per meglio conservarlo. Shams ad-Dìn Mohammed, avendo aperto il quaderno, riconobbe il carattere di suo fratello Nùr ad-DìnAlì.

Prima di poter fare le sue riflessioni, sua figlia gli mise nelle mani la borsa che aveva ritrovata sotto l’abito. Egli l’aprì pure, e quella era piena di dinàr – come ho già detto – poiché nonostante le larghezze fatte da Badr ad-Dìn Hassan, era sempre rimasta piena per cura del genio e della fata. Egli lesse queste parole sulla borsa: “Mille dinàr appartenenti all’ebreo Isacco.” e queste altre di sotto, scritte dall’ebreo prima di separarsi da Badr ad-Dìn Hassan. “Rilasciati a Badr ad-Dìn Hassan per il carico che mi ha venduto del primo dei vascelli che prima appartenevano a suo padre di felice memoria, quando sarà arrivato a questo porto.” Non appena ebbe terminato questa lettura, proruppe in un gran grido e svenne. Il visir Shams ad-Dìn Mohammed, rinvenuto dal suo svenimento, disse: “Figliola mia, non vi stupite di quel che mi è capitato. Ne è tale la causa, che appena vi potreste prestar fede. Questo sposo, che ha passato la notte con voi, è vostro cugino, il figliolo di Nùr ad-Dìn Alì. I mille dinàr, contenuti in questa borsa, mi fanno ricordare la disputa avuta con quel caro fratello, è senza dubbio il regalo nuziale che vi fa. Dio sia lodato di ogni cosa e particolarmente di questa meravigliosa avventura, la quale mostra luminosamente la sua potenza.” Guardò poi lo scritto di suo fratello, e più volte lo baciò, versando abbondanti lacrime. “Perché mai non mi è concesso” diceva “come io vedo questi caratteri che tanto giubilo mi danno, vedere qui Nùr ad-Dìn stesso, e riconciliarmi con lui?” Egli lesse da capo a fondo il quaderno, vi trovò le date dell’arrivo di suo fratello a Bassora, del suo matrimonio, della nascita di Badr ad-Dìn Hassan, e quando, dopo aver confrontato con queste date quelle del suo matrimonio e della nascita di sua figlia al Cairo, e considerato la relazione che fra essi vi era, e riflettuto in fine che suo nipote era suo genero, si diede tutto in preda alla gioia. Prese il quaderno e la soprascritta della borsa e li andò a mostrare al sultano, il quale gli perdonò il passato, e fu talmente incantato del racconto di questa storia, che la fece mettere in iscritto, onde tramandarla alla posterità.

Intanto il visir Shams ad-Dìn Mohammed non poteva comprendere perché suo nipote fosse sparito, sperava di vederlo comparire a ogni momento, e lo aspettava con una estrema impazienza per abbracciarlo. Dopo averlo inutilmente aspettato per sette giorni, lo fece cercare in tutto il Cairo, ma non ne seppe notizia alcuna. Ciò gli diede molta inquietudine. “Ecco” diceva “un’avventura ben singolare, nessuno mai non ne ha sperimentata una simile.” Nell’incertezza di quel che potesse accadere in seguito, credette dovere egli stesso mettere per iscritto lo stato in cui si trovava allora la sua casa, in qual maniera le nozze erano seguite, come la sala e la camera di sua figlia fossero addobbate. Fece pure un fagotto del turbante, della borsa e del resto del vestito di Badr ad-Dìn, e lo chiuse sotto chiave.

In capo a qualche giorno, la figliola del visir si accorse di essere gravida, e infatti nel termine di nove mesi ella partorì un figlio. Venne data una nutrice al fanciullo, con altre donne e schiave per servirlo, e suo nonno lo chiamò Agib. Quando questo giovane Agib ebbe toccato l’età di sette anni, il visir Shams ad-Dìn, invece di fargli insegnare a leggere nella propria casa, lo mandò a scuola da un maestro di grande reputazione, e due schiavi avevano cura di condurlo ogni giorno. Agib giocava con i suoi compagni, siccome erano tutti di una condizione inferiore alla sua, essi avevano tutti molta deferenza per lui, e in ciò si regolavano sul maestro di scuola, il quale molte cose gli passava che a essi non perdonava. La cieca compiacenza usata verso Agib lo perdette, divenne superbo, insolente, voleva che i suoi compagni tutto sopportassero da lui, senza nulla voler sopportare da loro. Dominava su tutti, e se qualcuno aveva l’ardire di opporsi alla sua volontà, gli diceva mille impropèri, e giungeva spesso fino a batterlo. Si rese insomma insopportabile a tutti gli scolari, i quali si lamentarono di lui con il maestro di scuola. Dapprima egli li esortò ad aver pazienza, ma vide che con ciò non facevano se non aumentare la insolenza di Agib. “Figlioli miei” disse ai suoi scolari “vedo bene che Agib è un insolente, voglio insegnarvi un mezzo di mortificarlo, affinché non vi tormenti più oltre. Domani, quando sarà venuto, e vorrete giocare insieme, disponetevi tutti intorno a lui, e qualcuno dica ad alta voce: “Noi vogliamo giocare, ma a patto che quelli che giocheranno dicano il nome della loro madre e del loro padre. Noi riguarderemo come bastardi gli altri, né sopporteremo che essi giochino con noi.” Il maestro di scuola fece loro comprendere l’imbarazzo nel quale avrebbero gettato Agib con questo mezzo, ed essi si ritirarono alle loro case con molta allegrezza. L’indomani non trascurarono di fare ciò che il maestro aveva loro insegnato. Circondarono Agib, e uno di loro prendendo la parola: “Giochiamo” disse “a un gioco, ma a patto che colui il quale non potrà dire il suo nome, il nome di sua madre e di suo padre, non vi giocherà.” Risposero tutti di accettare la condizione stabilita e vi soddisfecero l’uno dopo l’altro e anche Agib: “Mia madre, si chiama Dama di Bellezza, e mio padre Shams ad-Dìn Mohammed, visir del sultano.” A queste parole, tutti i fanciulli gridarono: “Che dite mai? Questo non è il nome di vostro padre, bensì quello di vostro nonno.” “Che Dio vi confonda!” replicò egli in collera. “Osereste voi dire che il visir Shams ad-Dìn Mohammed non è mio padre!” Gli scolari ripigliarono con scoppi di risa: “No, no, egli è solamente il vostro nonno, e voi non giocherete con noi, ci guarderemo molto bene di avvicinarvi.”

Dicendo ciò si allontanarono da lui motteggiandolo, e seguitando a ridere fra loro. Agib fu molto mor- tificato dei loro motteggi e si pose a piangere. Il maestro, che aveva ascoltato ogni cosa, entrò in quel mentre, e indirizzandosi ad Agib: “Agib” gli disse “non sapete voi ancora che il visir Shams ad-Dìn Mohammed non è se non vostro nonno, padre di vostra madre Dama di Bellezza? Noi ignoriamo, come voi, il nome di vostro padre. Sappiamo soltanto che il sultano ha voluto maritare vostra madre con uno dei suoi palafrenieri gobbo per giunta, ma che essa è stata invece posseduta da un genio. Ciò è per voi increscioso, e perciò dovete apprendere a trattare i vostri compagni con minor fierezza di quella con cui finora li avete trattati.” Il piccolo Agib, punto dai motteggi dei suoi compagni, bruscamente partì dalla scuola, e tornò a casa piangendo. Andò da principio all’appartamento di sua madre Dama di Bellezza, la quale, afflitta di vederlo così malinconico, con premura gliene domandò la ragione. Egli non poté rispondere se non con parole interrotte da singhiozzi, tanto era preso dal dolore, e fu a stento che poté raccontare la causa mortificante della sua afflizione. Quando ebbe terminato:

“In nome di Dio, o madre mia” disse egli “ditemi, se vi piace, chi è mio padre?” “Figliolo mio” rispose ella “vostro padre è Shams ad-Dìn, il quale v abbraccia tutti i giorni.” “Voi non mi dite la verità” soggiunse egli “non è mio padre, bensì i vostro. Ma io di qual padre sono figlio?” A questa domanda inaspettata, Dama di Bellezza, ricordandosi delle sue nozze, seguite da una così lunga vedovanza, cominciò a spargere lacrime, compiangendo amaramente la perdita di uno sposo così amabile qual era Badr ad-Dìn. Mentre Dama di Bellezza piangeva da una parte e Agib dall’altra Shams ad-Dìn entrò e volle sapere la causa delle loro afflizioni. Dama di Bellezza gli manifestò la causa della mortificazione ricevuta da Agib alla scuola. Questo racconto toccò vivamente il visir, il quale unì le sue alle loro lacrime e, giudicando che tutti tenessero dei discorsi contro l’onore di sua figlia, si diede in preda alla disperazione. Tormentato da questo pensiero andò al palazzo del sultano, e dopo essersi prostrato ai suoi piedi, lo supplicò umilmente di accordargli i permesso di fare un viaggio nelle province del Levante, e propriamente a Bassora, per andare a cercare suo nipote Badr ad-Dìn Hassan, dicendo d non poter sopportare si credesse nella città che un genio si fosse congiunto con sua figlia Dama di Bellezza. Il sultano, mosso dalle pene del visir, approvò la sua risoluzione e gl permise di eseguirla. Gli fece ancora spedire un messaggio, con il quale pregava, nei termini più obbliganti, i principi e i signori dei luoghi in cu era possibile fosse Badr ad-Dìn, ad acconsentire che il visir lo conducesse con lui. Shams ad-Dìn Mohammed non trovò parole per ringraziarlo. Egli si prostrò di nuovo innanzi al principe, e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi, dimostrarono chiaramente la sua riconoscenza. Infine si congedò dal sultano, dopo avergli augurato tutte le prosperità immaginabili. I preparativi della partenza furono fatti con molta sollecitudine, e dopo quattro giorni egli partì, accompagnato da sua figlia Dama di Bellezza e da Agib suo nipote. Essi camminarono per diciannove giorni di seguito senza ma fermarsi, ma il ventesimo, essendo arrivati in una bellissima prateria poco distante dalla porta di Damasco, si fermarono e fecero innalzare le loro tende sul margine di un ruscello che attraversava la città, rendendo suoi dintorni piacevolissimi. Il visir Shams ad-Dìn Mohammed dichiarò voler dimorare due giorn in quel luogo.

- Fiaberella
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